VENDERE KLIMT PER SANARE I BILANCI?
Editoriale | ottobre 2015 | Ponte rosso N° 5
L’attuale sindaco di Venezia è un imprenditore prestato alla politica: uno che si è fatto da sé, come si dice. Milanese, una laurea in Architettura a Venezia, presidente della holding Umana, che raggruppa imprese di vario genere ed interesse, presidente anche di una storica squadra di pallacanestro. L’uomo si è già distinto in diverse occasioni, nei pochi mesi dal suo insediamento, per interventi in ambito culturale piuttosto bizzarri, come l’aver ordinato il ritiro dalle scuole veneziane di una cinquantina di libri che affrontano in chiave critica il tema della discriminazione. Favole concepite con l’intento di insegnare ai bambini a rispettare chi è diverso da loro, l’amico disabile, quello con un altro colore di pelle, quello adottato, l’omosessuale, chi ha due mamme o due papà. Ma il sindaco si è anche segnalato per aver rifiutato Palazzo Ducale per una mostra intitolata “I mostri di Venezia” in cui un maestro della fotografia, Berengo Gardin, denuncia il passaggio delle grandi navi da crociera davanti al bacino di San Marco. L’ultima uscita del sindaco di Venezia è l’idea di vendere opere d’arte di proprietà del Comune per ripianare i debiti. Opere d’arte, beninteso, “non legate né per soggetto né per autore alla storia della città”. Come dire che il Comune si tiene i suoi Canaletto, ma potrebbe mettere all’asta la Giuditta II di Gustav Klimt o Il rabbino di Vitebsk di Marc Chagall, entrambi conservati al Museo d’Arte Moderna di Ca’Pesaro. L’idea ha trovato subito il consenso di Vittorio Sgarbi, ma fortunatamente non quello di molti altri, compreso il ministro dei Beni culturali Franceschini, che ha liquidato l’idea come una battuta di dubbio gusto del sindaco.
Si possono trarre dall’insieme di queste vicende alcune considerazioni di valenza generale.
Intanto per dire che non è sempre vero che in determinate materie lo Stato sia meno efficace degli Enti locali. Per esempio nella tutela del patrimonio culturale: l’imposizione di vincoli di legge che impediscano di trattare come una qualsiasi merce opere d’arte sottrae all’arbitrio di singoli amministratori la disponibilità di beni (archeologici, artistici, bibliografici, documentali e paesaggistici) che, per il loro valore storico, estetico e artistico, appartengono all’intera collettività nazionale (o anche internazionale) e non ai singoli proprietari. Per amministrare tali beni è opportuno che siano chiamate (per concorso e non per elezione) persone che abbiano una specifica comprovata competenza. Esattamente com’è necessario che un magistrato inquirente o giudicante disponga di una specifica cultura giuridica, il direttore di un museo, di una biblioteca, di un archivio o il personale tecnico e direttivo delle Soprintendenze deve essere dotato delle opportune cognizioni nelle materie che riguardano l’arte, la custodia e la fruibilità dei libri nelle biblioteche e dei documenti negli archivi, la tutela del paesaggio. E che il parere di personale specializzato sia prevalente rispetto a quello dell’autorità politica in ogni questione che riguardi la conservazione, la tutela e la valorizzazione dei beni culturali.
Una seconda riflessione dovrebbe essere fatta riguardo ai meccanismi di selezione del personale politico. Dall’istituzione dell’elezione diretta dei sindaci e dalla disgregazione dei partiti come strumenti per l’organizzazione del consenso democratico, la selezione dei candidati privilegia personalità che, di norma, hanno conquistato una visibilità in ambiti diversi da quelli dell’amministrazione dei beni pubblici: imprenditori in primo luogo, e poi professionisti di chiara fama, docenti universitari, ma anche cantanti e ballerine. Ciò, se da un lato ha consentito per esempio negli Enti locali una maggiore governabilità, ha condotto al progressivo smantellamento delle possibilità di formare “sul campo” personale politico qualificato per tale fondamentale “mestiere”, per privilegiare persone che si sono sempre occupate di altro.
I risultati sono sotto gli occhi di tutti.