Una biblioteca “in malora”
articolo 9 | Il Ponte rosso N° 45 | maggio 2019 | Walter Chiereghin
La Biblioteca Civica di Trieste è chiusa da oltre 4.000 giorni: è lecita l’apprensione per la conservazione di centinaia di migliaia di volumi abbandonati in un edificio non climatizzato e non presidiato? è o no resa difficoltosa la fruizione di un pubblico servizio?
di Walter Chiereghin
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Costituzione della Repubblica italiana, articolo 9
Se n’era occupato già Scipio Slataper, nella seconda delle sue Lettere triestine, pubblicata centodieci anni or sono, il 25 febbraio del 1909, sulle pagine della Voce diretta da Prezzolini. In essa veniva proposta una sarcastica ricognizione della biblioteca allora diretta da Attilio Hortis, ospitata a Palazzo Biserini, al piano sottostante il Museo di Storia naturale, dal quale «ci dovrebbe essere per precauzione un gran salto. Invece a Trieste la stretta parentela dell’alcool con la carta è separata solo da un soffitto». Proseguiva quindi il giovane collaboratore della prestigiosa rivista nella sua irridente descrizione della biblioteca: «perché essa è – mi servo di sintesi triestina – in malora. No, niente giudizi: guardate! Un’anticamera con due panche e due tavoli, dove l’acqua d’inverno può gelare senza riguardi: è la prima sala. La seconda, vera, eccola qui: grande come un’aula scolastica; tre tavoli con trenta sedie; un banchetto di quelli per scrivere in piedi, sostenente i cataloghi: la metà circa delle lettere dell’alfabeto; due scaffaloni murali di enciclopedie e dizionari […] vicino al tavolo della consegna e della riconsegna uno scrittoio per il vice bibliotecario; dall’altra parte, in fondo, il tavolino dell’impiegato per i prestiti; un altro accanto che funziona come può da sala di studio, dietro al quale sta una libreria. Una stufa; sui muri grigi, nerastri, neri, attaccapanni, due o tre incisioni e – auf! – ho finito. Anche di ridere: è una cosa troppo seria l’aria di me ne impippo con cui Trieste butta un’occhiatina alla sua biblioteca e tira via facendo spallucce».
Otto o nove decenni più tardi, entrando nella Biblioteca Civica che nel frattempo aveva preso il nome di Attilio Hortis, più volte, mentre attendevo che mi fosse consegnato in prestito o in lettura il volume che avevo richiesto, mi capitava di sorridere ripensando al testo di Slataper e a quanto esso collimasse con quanto mi vedevo attorno, gli stessi o analoghi schedari, la stessa aria dimessa e trasandata, l’immagine di un’istituzione negletta dall’amministrazione comunale, che pure, per la caparbia volontà di leggere degli utenti e per quanto alcuni volonterosi dipendenti cercassero di assecondare le richieste dei lettori, risultava comunque un’istituzione utile e in taluni casi indispensabile.
Certo, alcune cose erano cambiate rispetto al secolo o poco meno che era passato dalle Lettere triestine: la biblioteca s’era allargata, occupando altri due piani, per far spazio all’incremento dei volumi conservati, l’informatica iniziava a fare timidamente capolino tra quelle mura, poi, finalmente, la sala dell’emeroteca del pianterreno, comunque un passo in avanti nell’organizzazione dell’ormai veneranda istituzione cittadina.
Se si saliva ai piani superiori, rigorosamente interdetti ai disabili per l’assenza di un ascensore, sembrava tuttavia di essere ritornati all’inizio del secolo, non ci si sarebbe meravigliati di trovare seduto ed immerso nella lettura di qualche antico volume Silvio Benco oppure addirittura Ettore Schmitz.
Era evidente a chiunque che l’edificio che ospitava l’istituzione culturale aveva bisogno di un completo restauro, o forse si sarebbe dovuto pensare a una sede del tutto nuova, in grado di ospitare la mole, per sua natura destinata a divenire sempre crescente, di volumi a disposizione del pubblico, ottemperando al contempo alle mutate esigenze operative connesse a una razionale organizzazione di un servizio accogliente nei confronti del pubblico, che fosse a un tempo in grado di provvedere al meglio agli obblighi di conservazione dei preziosi beni culturali che una biblioteca ormai storica contiene.
Le collezioni della Civica sono nate negli anni tra la fine del Settecento e i primi anni del secolo successivo, a partire da un primo nucleo di 2.735 opere donate al Comune dai “pastori” dell’Arcadia Romano-Sonziaca, filiazione piuttosto tardiva dell’Arcadia di Roma, fondata a Gorizia nel 1780. La sede di tale primo nucleo era, nel 1793, in Piazza Grande (ora Piazza Unità d’Italia) e solo nel 1820 fu trasferita nel palazzo Biserini, in Piazza Lipsia (ora Piazza Attilio Hortis). Generose donazioni o lasciti di privati, a cominciare da quelli di Domenico Rossetti che consentirono di organizzare l’importante fondo petrarchesco – piccolomineo, per proseguire ininterrottamente fino ai giorni nostri, con l’acquisizione dei fondi di Carlo e Mirella Sbisà, di Fabio Doplicher, di Margherita Hack, ancora da catalogare. Oltre a ciò, fin dal 1852, disposizioni di legge resero obbligatoria la consegna alla Biblioteca Civica di ogni opera che viene stampata localmente, il che, oltre all’utilizzo di fondi appositamente stanziati dal Comune, ha consentito di accrescere di molto il numero dei volumi, superando attualmente la soglia delle 480.000 unità.
Ci sarebbe da esserne fieri, se non fosse che gran parte di questo patrimonio è oggi difficilmente accessibile, dal momento che il 12 maggio, da poco trascorso, i triestini potrebbero ricordare l’undicesimo anniversario della chiusura della loro Biblioteca Civica per quanto attiene alla sede di Palazzo Biserini, dove tuttora giacciono circa 390.000 volumi. Il 12 maggio del 2008, difatti, la Biblioteca venne chiusa e le collezioni della Raccolta Patria e dell’Archivio Diplomatico, assieme ai musei letterari ospitati dalla “Hortis”, furono disponibili, non senza difficoltà, dopo qualche mese nella sede provvisoriamente allestita in Via Madonna del Mare. La riapertura di un finalmente restaurato Palazzo Biserini, privato dell’ingombrante e incombente presenza del Museo di Storia naturale era prevista, dissero, all’incirca entro i due anni che seguirono la chiusura al pubblico, con la sola eccezione dell’Emeroteca Tomizza ospitata al pianterreno.
Era l’epoca della seconda giunta Dipiazza, assessore alla Cultura Massimo Greco, quando tra l’altro si pensò bene di allontanare in quella delicata fase la dirigente della biblioteca, che rimase così acefala (lo è nuovamente tuttora) e con i fondi librari divisi tra la sede provvisoria, la sede storica e immagazzinati in parte in Via Cumano, per cui l’attesa di un volume può protrarsi per alcuni giorni.
Anche nella sede “provvisoria” di Via Madonna del Mare l’accessibilità ai fondi librari delle sole opere custodite nella “raccolta patria” non è sempre continuativamente garantita: capita difatti con ricorrente periodicità che si guastino le scaffalature elettroniche in cui sono contenuti i volumi, per cui l’utente deve ripassare quando il guasto verrà ripristinato.
Questa situazione perdura da oltre quattromila giorni, e sullo scandalo di tale incuria non si pronuncia nessuno, tra quanti avrebbero o avrebbero avuto il compito di mantenere se non di accrescere la funzionalità di un servizio pubblico di primaria importanza: a nulla sono servite le proteste degli studenti e dei ricercatori delle vicine sedi universitarie, l’appello a sindaco e agli assessori del Magnifico rettore, le segnalazioni di cittadini sulla stampa locale.
A prescindere dai disservizi nei confronti dell’utenza, a fare le spese di questa situazione di perdurante precarietà sono, naturalmente, anche i dipendenti, che devono operare in ambienti inadeguati quando non pericolosi, oltretutto dovendo subire in prima persona il malcontento di chi intenderebbe fruire di un servizio senza tempi di attesa incerti e spropositati.
Ma queste condizioni operative indegne di un paese civile sarebbero ancora poca cosa a fronte delle condizioni di conservazione dei volumi che, a centinaia di migliaia, sono abbandonati in locali non presidiati, inadeguati dal punto di vista della temperatura (palazzo Biserini non è riscaldato da oltre dieci anni), dell’umidità (fattore primario di degrado della carta) dell’assenza di impianti elettrici a norma. Un clamoroso caso di allagamento causato nel 2012 dalla rottura di un tubo a causa del gelo, riguardò alcune centinaia di volumi, provocando fortunatamente danni limitati, almeno così dicono, al patrimonio librario, grazie a tempestivi interventi conservativi di emergenza condotti sotto la supervisione dell’Istituto centrale per il restauro.
Vengono ora spacciati per lavori di riqualificazione del palazzo un intervento, del costo di 2.500.000 euro (realizzato con i fondi PISUS (Piano Integrato di Sviluppo Urbano Sostenibile) per un importo di 2.500.000,00 euro (cofinanziato dalla Regione per il 76,45%, pari a 1.911.250,00), quello che invece è semplicemente il completamento della ristrutturazione del pianoterra del palazzo, iniziato nel 2004 (!) e realizzato in parte con i locali dell’emeroteca Tomizza, che a breve troveranno completamento (era previsto nel gennaio di quest’anno, ora è annunciato ad agosto/settembre, “solo” quindici anni dopo l’inizio dei lavori) con un intervento che, come afferma il Comune, «consentirà a cittadini e turisti di usufruire di una struttura in grado di offrire ulteriori opportunità socio-culturali con tutta una serie di servizi innovativi: sale polifunzionali per ospitare mostre ed eventi, spazi espositivi e di lettura e conferenze, temporary shop per esporre i prodotti tipici locali, book shop, un bar e una corte interna con copertura in struttura di metallo e vetro che offrirà un accogliente e attrattivo ‘giardino d’inverno’ ai visitatori e servirà da elemento di connessione urbana tra la piazza Hortis e la via S.S.Martiri. Due ingressi che garantiranno maggiore agibilità ai flussi di passanti». Se non dei lettori, conforta che il Comune si occupi almeno dei passanti!
Tutti, cittadini e turisti, sicuramente felici per gli spazi espositivi, i book shop, i temporary shop, il bar, e il giardino d’inverno, ma è da dire che questo sfavillante centro commerciale che si annuncia non accorcerà nemmeno di cinque minuti i tempi di attesa di un volume richiesto in prestito o in consultazione, né metterà in sicurezza neanche uno delle migliaia di volumi che, sopra i temporary shop, i bar, i book shop e il giardino d’inverno continueranno ad essere abbandonati a se stessi nelle medesime condizioni di precarietà ambientale e conservativa in cui versano oggi, in cui versano dal 12 maggio di undici anni or sono. Perché la nostra biblioteca continuerà ad essere (mi servo anch’io della “sintesi triestina” di Slataper) “in malora”.
Ci sarebbe di che ironizzare e persino di che deridere la lunga serie di amministratori – sindaci e assessori alla Cultura e ai Lavori pubblici – che si sono succeduti per tre successive amministrazioni comunali senza concludere sostanzialmente nulla nel merito, ma c’è poco da ridere, convengo una volta di più con l’autore del Mio Carso: «è una cosa troppo seria l’aria di me ne impippo con cui Trieste butta un’occhiatina alla sua biblioteca e tira via facendo spallucce».