Un testo dal Medio Evo

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Idee per la lettura di un forse-capolavoro (che forse ha ispirato Dante)

di Francesco Carbone

 

O libello nutrito al seno di un lungo studio,

figlio rude e plebeo di un ingegno comune…

(Giovanni di Altavilla, Architrenius, Libro nono)

 

Come un intruso, come un caro estinto che ci riappare vivo quando ormai abbiamo contratto altri matrimoni e fatto nuovi figli, riemerge dal XII secolo il poema di Giovanni di Altavilla Architrenius edito da Carocci, a cura di Lorenzo Carlucci e Laura Martino, opera che in nove libri racconta in esametri latini il viaggio iniziatico del protagonista: dalle terre degli uomini irrimediabilmente peccatori a una vaga forma di pace, praticabile solo al riparo di quella musa mediocre che è la Moderazione.

Le due introduzioni dei curatori e traduttori ci dicono la possibile portata della riscoperta, e le resistenze a cui andrà incontro. Laura Martino opportunamente cita all’inizio una considerazione essenziale di T. S. Eliot (1919): proprio perché «l’insieme organico» della letteratura costituisce un solo corpo vitale, «l’ingresso di un’opera d’arte nuova (ma veramente nuova)» àltera la compattezza del “Canone”, che ingannevolmente si dà come «autosufficiente prima dell’arrivo di questa nuova opera»: come se del passato sapessimo tutto o comunque quanto basta per ricavarne una costellazione compiuta per la nostra quiete culturale.

Per gli happy few che ancora praticano il mondo delle belle lettere, c’è dunque sempre incombente la minaccia pedagogica del “Canone”: del sistema abnorme, ma pur sempre finito, di ciò che non si può non sapere. Questo Moloch ci indica quali siano i maggiori e i minori, i capiscuola e gli epigoni, traccia le linee delle influenze, recinta ed etichetta gli autori per movimenti, correnti e genealogie, attribuendo, come Minosse nell’Inferno di Dante, a ognuno il suo posto e il suo peso; e ama da sempre credersi eterno (come antidoto a questa fola, varrebbe sempre avere sott’occhi Il Parini, ovvero della gloria di quel Franti pestifero che riesce ancora ad essere Leopardi).

Date queste regole del gioco della pur indispensabilissima Tradizione, cosa fare di questa squisita scheggia del XII secolo, che riemerge non levigata dal tempo cauto delle letture accademiche e scolastiche, ancora tagliente e con un posto tutto da conquistare tra gli spazi educati della nostra Cultura?

Laura Marino mette in esergo alla sua introduzione i versi finali di una poesia di Mario Luzi (Rughe, 1944) sulla «buia ferita» che l’inaspettato apre nella nostra memoria acquietata. Walter Benjamin, ha scritto molto su questa natura traumatica e messianica delle cose del passato, che possono ripiombare fragorose nel presente tali e quali, traumatiche e ferenti: non educabili, e mai totalmente riducibili a Canone & Cultura. Hannah Arendt chiamò Benjamin il pescatore di perle: è allora l’Architrenius di Giovanni di Altavilla una perla?

A giudicarlo si rischierebbero cantonate terribili. I curatori di questa edizione trovano «di certo superiore al suo contemporaneo Alano di Lilla», la «squisita fattura» degli esametri del «notevolissimo poeta» Giovanni di Altavilla; il classico Ernst R. Curtius (Letteratura europea e Medio Evo latino, La Nuova Italia 1995) pensava il contrario. Come si vede, si può conotendere come per un contemporaneo. Non possono non venire in mente i pareri editoriali parodisticamente inventati da Umberto Eco nel suo Diario minimo (1963), dove, immaginando che arrivi a una casa editrice per esempio proprio la Commedia di Dante, l’innocente (massima colpa in letteratura) redattore scrive che «il lavoro dell’Alighieri, pur essendo di un tipico autore della domenica, che nella vita corporativa è associato all’ordine dei farmacisti…», eccetera.

Proprio perché risorto spigoloso e intatto, come una sorta di Pompei letteraria, l’Architrenius ci appare enigmatico, esposto a giudizi ancora imbarazzati, il che in fondo sarebbe un’operazione anche fatua. Come scrive Laura Marino, certo ci appare portatore di un «alto rischio di incongruità».

Saremmo molto cauti a definire l’Architrenius un «capolavoro» (Nota alla traduzione). Vorremmo difendere l’Architrenius da quella qualifica rischiosa. Goethe, che a Eckermann confidò che gli occorse tutta una vita per diventare un buon lettore (concetto arido e incomprensibile per i più), in una delle sue massime scrisse che un capolavoro è un’opera diventata ormai ingiudicabile. È lecito quindi sospettare che la qualifica di capolavoro sia una delle maschere di maggior successo dell’oblio: se non posso più dire che la Gioconda è brutta, che senso ha dire che è bella? – Come ci fa capire Flaubert nel Dizionario dei luoghi comuni (Adelphi 1980), “capolavoro” è lo stadio subito precedente al non essere letto, la condizione in cui di un’opera tutti parlano senza più praticarla, operazione a cui la scuola da tempo contribuisce da par suo. – Mentre leggere, nel senso di Goethe, dovrebbe essere la capacità di sentire sempre e comunque ciò che Laura Marino ha chiamato l’«alto rischio di incongruità» dell’opera: rispetto non solo al suo presente ma al nostro.

Nel caso dell’Architrenius, l’incongruità sarebbe ancora maggiore proprio perché il poema, gnomico ma non troppo, potrebbe rivelarsi come una radice finora segreta di classici presentissimi (la Commedia di Dante e Il dialogo della Natura e un Islandese di Leopardi!), come un loro compagno segreto, ipotesi che obbligherebbe a riscrivere un po’ di pagine della storia letteraria mondiale.

Tanta premessa per provare a dire la complicatezza dell’avvicinarsi al poema di Giovanni d’Altavilla.

Pare che l’autore sia stato un intellettuale che potremmo dire di provincia: della città normanna di Hauville vissuto tra la fine del XII secolo e l’inizio del XIII, magister alla scuola della cattedrale di Rouen, diplomato nelle arti liberali forse a Oxford forse a Parigi, forse sacerdote forse no, divenuto famosissimo in vita proprio per l’Architrenius; ma stroncato, appena un secolo e mezzo dopo, da Petrarca per un eccesso di descrittiva verbosità («volendo dire tutto, non dice nulla»). Il poema pressoché sparì poco dopo la prima stampa, impressa  nel 1517 a Parigi,

Facile notare già nella trama la presenza di archetipi familiari ai lettori di Dante: Architrenius (e cioè principe delle lamentazioni) è un uomo che nel mezzo del cammin della sua e della nostra vita si accorge che tutto quanto ha fatto fino a quel momento è stato vanitas: che forse è ormai irrimediabilmente impaniato nella silva (e cioè la materia, l’hyle dei greci) senza aver dedicato neppure un istante alla virtù. Scoprendosi silva nella silva, Architrenius, proprio come Dante everyman (Ezra Pound), decide di intraprendere un viaggio per incontrare la Natura, madre e matrigna alla quale chiedere conto di una sorte che non è solo sua ma del mondo, perché «la caduta nel vizio è un avvenimento immancabile e nativus per gli uomini» (Laura Marino). Forse Giovanni di Altavilla aveva avuto a che fare con la coeva eresia dei Catari

Come Gulliver, s’imbatte in terre allegoriche (il palazzo di Venere, il monte dell’Ambizione, il colle della Presunzione), luoghi in cui i peccatori sono raccolti assieme come in un girone dell’Inferno di Dante (i golosi, gli avidi, gli scialacquatori, i superbi, l’isola di Tylos che raccoglie, come il Limbo, tredici filosofi) e luoghi reali (l’ università di Parigi dove conducono una vita ben grama gli studenti di logica), per incontrare nel nono e ultimo libro la gigantesca Natura, che si rivela forse non meno enigmatica di quella che l’Islandese leopardiano: «Guarda, o dea, questo nulla, anzi meno che nulla!» (libro IX; v. 156).

È un viaggio – si potrebbe dire intanto – sorprendentemente moderno, se per moderno intendiamo un percorso aperto, privo di consolazioni, problematico e lontano da ogni certezza non solo morale ma religiosa: molto più vicino al lacerato Secretum di Petrarca che alla Commedia di Dante dalle inscalfibili certezze messianiche.

A chi sa di filosofia medievale, appare chiaro che Giovanni di Altavilla ha un obiettivo polemico nella illuministica scuola di Chartres, così fiduciosa (come papa Ratzinger, e Dante) che ragione e fede parlino la stessa lingua, che la prima sia il proemio della seconda, e che in Paradiso le due voci si riconcilieranno in un’unica verità, magari già predicata nell’età classica – come dal povero Virgilio – senza sapere che (quarta Egloga), credendo di scrivere di un salvifico puer romano, in realtà profetizzava il Cristo (Purg., XXII, vv. 67-9): cristiani a loro insaputa.

Nell’Architrenius invece lo stacco tra Natura e Dio è incommensurabile, e la Natura non è affatto – come invece Dante non si stancherà di ripetere nel Paradisoimago Dei: è piuttosto mundus immundissimus, un coacervo in cui forma e informe coesistono instabili e minacciose, un magma da cui sono sempre pronti a emergere innumerevoli «vultus anomalos», arroganze della creazione, arbitrarietà mostruose che si danno senza bisogno di alcuna giustificazione. E lo stesso regno del difforme abita il cuore di Architrenius e di tutti gli uomini… Era forse Giovanni di Altavilla un manicheo? Non sarebbe mai possibile scrivere un compostissimo Convivio di un mondo così poco antropomorfo.

Tra le lamentazioni di Giobbe (Dio cosa hai fatto a me?) e quelle corali di Geremia (Cosa hai fatto al mio popolo?), oscilla il tono di Architrenius. Il suo descendus ad inferos non ritorna alle stelle: la conclusione, che non anticipiamo, è appena ambiguamente positiva, e a noi fa pensare alla morale celebre del Candido di Voltaire: che la musa dell’irresponsabile vita umana possa essere solo la Moderazione, e che insomma «Il faut cultiver notre jardin», alla larga dalle cosmiche domande che si farà Dante, certo lui reazionario, all’estremo limite del cristianesimo medievale e già esposto sull’abisso della secolarizzazione inarrestabile del nostro mondo, che una risposta palingenetica esista e che ci attenda.

Ora, a noi, lettori tutt’altro che specialisti, rispetto alla Commedia ha colpito, molto più di una serie di somiglianze che potrebbero junghianamente corrispondere al ritorno di archetipi diffusi e ancestrali, un passo dell’ottavo Libro dell’Architrenius (Descrizione di certi circoli celesti, ma si veda anche, nel Libro nono, Il resto della nascita dei segni) che, come si suol dire, ci ha fatto sobbalzare sulla sedia. Qui Giovanni di Altavilla descrive il momento topico dell’equinozio di primavera, momento allegorico come pochissimi altri dell’anno cristiano, coincidendo – per quella religione allora così esatta – con il momento della creazione del mondo, del concepimento di Cristo e della sua resurrezione:

 

Ciò vale per tutte le sfere; ma dove il retto orizzonte / Cinge Aren bruciata, una nascita eguale allinea / I quarti dello zodiaco, dove il Sole devìa le briglie / verso i Tropici e il giorno alla notte eguaglia nei punti finali. / Qui ogni arco protrae degli eguali periodi / Al sorgere e al tramontare, nasce ogni segno ugualmente / Rispetto all’opposto.

 

La corrispondenza con un passo arduo del primo canto del Paradiso ci fa sospettare qualcosa di più di una comunanza di fonti: soprattutto il Liber de aggregationibus di Al-Farghani, astronomo del IX secolo, autore del principale «manuale» cosmologico di Dante (vedi la voce Alfragheno, Massimo Miglio, Enciclopedia Dantesca, Treccani 1970). Ora, nel primo canto del Paradiso (vv. 37-42) Dante non si limita, come nel primo dell’Inferno, a confortarsi della coincidenza dell’inizio del suo viaggio con l’equinozio di primavera; ma fa accadere la sua ascesa nel momento in cui «tre croci» vengono formate dall’intersecarsi di «quattro cerchi»: l’orizzonte, l’orbita del sole (eclittica), l’equatore e il meridiano che passa per i poli celesti (colurio equinoziale):

Surge ai mortali per diverse foci / la lucerna del mondo; ma da quella / che quattro cerchi giugne con tre croci, // con miglior corso e con migliore stella / esce congiunta, e la mondana cera / più a suo modo tempera e suggella.

Salta agli occhi intanto una corrispondenza, nella costruzione della frase, letterale con il passo dell’Architrenius. Giovanni di Altavilla: «Omnibus hoc speris; sed qua…»; Dante: «Surge ai mortali per diverse foci (…); ma da quella…». Sarebbe naturalmente da studiare se altri, tra Giovanni e Dante, hanno descritto questo momento messianico, ma il sospetto che in qualche modo il «largamente diffuso» (Lorenzo Carlucci) Architrenius sia arrivato a Dante, e sia stato per lui fecondo, è legittimo e persino doveroso. Intanto, pare già certo che tracce dell’Architrenius siano riconoscibili nel Tesoretto di Brunetto Latini, come si sa, maestro di Dante, e nell’Inferno astrologo che nelle stelle del suo discepolo lesse il destino che ancora gli riconosciamo: «Se tu segui tua stella, / non puoi fallire a glorioso porto…» (Inferno, XV, vv. 54-55).

 

QUATTRO DOMANDE AI CURATORI,

LAURA MARTINO E LORENZO CARLUCCI

 

Lei, nella sua introduzione, ha parlato di un «alto rischio di incongruità» rispetto al “Canone”. Ritiene che nella nostra tradizione il libro dell’Altavialla sia destinato a rimanere incongruo, o che possa venir assimilato, per esempio, come una radice del Roman de la Rose, e magari del Fiore e della Commedia di Dante?

LM: Senza dubbio la prima; si tratta di una questione che amo molto e per la quale, in un certo modo, “milito” nel mio piccolo e con le armi inoffensive della penna. Credo che la letteratura, in generale forse qualsiasi oggetto di conoscenza, sia sottoposta a una forte spinta alla permanenza: in un certo modo abbiamo bisogno della permanenza -che il mondo rimanga, si mantenga identico, che i sistemi siano coerenti e che il nuovo vi si inserisca senza produrre scarti troppo eversivi- per poter conoscere, agire, programmare il futuro. Tuttavia la nostra esperienza, così la letteratura come immagine dell’esperienza umana nel tempo, ci insegna ogni giorno il dissimile, il finire, l’impermanenza delle cose e, ahimè, di noi stessi. Allora la sfida più grande quando leggiamo un testo è proprio quella di lasciare che il testo esista e continui a esistere, dentro il nostro lavoro ermeneutico, proprio come altro dal paradigma, mutevole e vario contro le spinte centripete che tentano di ridurlo a pedina di un sistema pacificato e rassicurante.

Altavilla scrive con un amore del dettaglio che induce a pensare a certe pitture fiamminghe, in cui tutto è perfettamente a fuoco. Ricorda un po’ il catalogo delle navi dell’Iliade, o le lunghe genealogie della Bibbia. Il “vostro” autore vale la stessa incondizionata attenzione? E quanto si perde, nella traduzione, del latino barbaro dell’autore?

LC Direi di sì. Eco parlava di “Vertigine della lista”, l’ebbrezza di poter ordinare il reale in una forma senza perderne alcun dettaglio, quel “voler dire tutto” di cui Petrarca accusava l’Architrenius, aggiungendo: “senza dire nulla”. Ma dell’impossibilità di “dire tutto” Giovanni sembra molto consapevole: «Guarda, o dea, questo nulla, anzi meno che nulla» è la preghiera dell’uomo alla Natura. Questa tensione tra il desiderio di salvare, nominandoli, tutti gli esseri finiti nella loro finitudine, e la consapevolezza dell’impossibilità dell’impresa, è di certo un motore della poesia di Giovanni e, forse, della poesia in generale. «Non vi è scienza dell’individuo», ma solo del generale, recita un motto di Aristotele. La poesia ha tra i suoi compiti speciali proprio quello di dire l’individuo, e tra le sue condanne quella di doverlo fare con il linguaggio, che è generale. Giovanni, con le sue minute descrizioni di un mondo che sa essere “meno che nulla” e “cosa immondissima”, assolve, credo, proprio a questo compito.

Quanto alla traduzione: si perde tanto, come inevitabile. Posso dire che la nostra scommessa principale è stata quella di dare una traduzione utile allo studioso e godibile per il lettore non specialista, coniugando aderenza “verso a verso” all’originale e alle sue figure retoriche con una resa globale esteticamente apprezzabile. Che il latino di Giovanni sia “barbaro” è argomento dibattuto…

Il successo, e poi il progressivo ridursi della ricezione dell’Architrenius a una nicchia di inquieti, può avere a che fare col predominare, in quel tempo, di una “sistemazione”, per non dire di una censura, delle inquietudini religiose precedenti?

LC Credo proprio di sì. In particolare è lecito pensare a un legame con le presunte eresie dualiste, catare o manichee, dei secoli XI e XII. Il poeta e filosofo Alano di Lilla, diretto antagonista letterario di Giovanni, partecipava in quegli anni alla predicazione contro gli Albigesi. Si può ragionevolmente ipotizzare che la scomparsa dell’Architrenius dal dibattito culturale, sia dovuta, almeno in parte, alle sue ambigue e pericolose assonanze con dottrine che furono giudicate eterodosse. Stesso discorso vale per il XVI secolo. L’edizione a stampa del 1517, anno delle tesi di Lutero, si deve a uno dei più grandi “editori” dell’epoca, Ascensius, editore di Erasmo e suo corrispondente. Il fatto che la sua edizione divenne immediatamente molto rara negli anni della Controriforma fa sicuramente riflettere. Tra i pochi “fan” di Architrenius nel XX secolo troviamo Rudolf Steiner, il quale annovera Giovanni nientemeno che tra i “grandi iniziati” del XII secolo. Si tratta di suggestioni e ipotesi che devono essere messe al vaglio della verifica storica. Posso solo augurarmi che altri studiosi raccolgano questa sfida.

Quel passo del primo canto del Paradiso che ho citato nella recensione, pare anche a voi una possibile spia della conoscenza che Dante avrebbe potuto avere dell’Architrenius?

LM: Certamente la sua suggestione è interessante, ma direi che bisognerebbe lavorarci su, controllare le possibili mediazioni delle traduzioni latine di Alfraganus, che aveva in mano Dante. Il rapporto tra l’Architrenius e la Commedia è un capitolo ampio e complesso, al quale sto lavorando per la mia tesi di dottorato: ho trovato delle corrispondenze lessicali stringenti in contesti simili dal punto di vista del contenuto; una fra tutte la battaglia tra i Prodighi e gli Avari, unicum nella tradizione che compare nel canto VII dell’Inferno e nel libro V di Architrenius. In generale, non è assurdo immaginare una qualche relazione tra la Commedia e il poema mediolatino, che era nominato in tutte le poetriae, i manuali scolastici del XII secolo, come testo imprescindibile.

 

 

Giovanni di Altavilla

Architrenius

a cura di Lorenzo Carlucci

e Laura Martino

Carocci, Roma 2019

  1. 408, euro 36,00