Un poeta e una nazione

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Un saggio di Fulvio Conti ripercorre la storia della ricezione di Dante, del mito nato attorno alla sua figura e della sua opera.

di Fulvio Senardi

 

Le ceneri di Dante, che probabilmente fremono di indignazione per la pertinacia con cui Aldo Cazzullo insiste a proporre la sua caricaturale visione del Poeta e del Capolavoro (con un acuto di sfacciataggine nell’aver voluto al suo fianco un noto pregiudicato per dissertare a due voci, nell’evento “L’eterna bellezza”, intorno ad un uomo che fu refrattario ad ogni compromesso morale), avranno certo avuto un istante di sollievo grazie al libro di Fulvio Conti – questo sì una ricerca seria, pensata, necessaria – Il Sommo italiano. Dante e l’identità della nazione. Un volume che affronta il tema dantesco nella prospettiva della ricezione facendo dunque tesoro, in un’ottica di storia della cultura e della società, da un lato degli insegnamenti della “Rezeptionsästhetik” (la “scuola di Costanza”, ma non solo), e dall’altro dei Cultural Studies; nuovi indirizzi che hanno messo l’accento sui modi di fruizione delle opere artistiche, nella consapevolezza che esse esistono perché vengono “lette”, e che nel processo fruitivo dispiegano – mentre cambiano, negli anni, il gusto, la sensibilità, gli interessi del pubblico – potenzialità presenti ma virtuali.

Nella fattispecie non si tratta però, in senso stretto, di quel percorso di ricerca che rientra negli ambiti della “storia della critica”, la disciplina che si sforza, pur nella consapevolezza di una scommessa impossibile, di avvicinarsi, lo diciamo con Umberto Eco, all’“intentio operis et auctoris” (un discorso già qui assai complesso perché la “scuola del sospetto” ci ha insegnato che spesso l’opera possiede un’“eccedenza” rispetto alle intenzioni dell’autore), scontando però il peso, come una sorta di insuperabile peccato originale, di una specifica impronta epocale.

Nel caso del libro di cui parliamo, siamo di fronte invece, e dichiaratamente, alla volontà di occuparsi del «mito e dell’uso pubblico di Dante», ovvero, se vogliamo, della sua “strumentalizzazione” a fini politico-ideologici; a partire da quando, sull’onda del culto del Genio professato dai vari pre-romanticismi, Sturm und Drang in primo luogo, il poeta della Commedia è rientrato a vele spiegate nell’Olimpo del canone letterario, dopo secoli di marginalità e imbarazzo (Pietro Bembo ne riconosceva la grandezza, ma evidenziava altresì nel “vocabolario” dantesco la presenza di voci «rozze e disonorate»).

Esaltato come profeta della libertà italiana da Foscolo, Tommaseo e Mazzini, per dire solo degli scrittori più illustri, Dante, in quanto simbolo dell’Italia che andava facendosi grazie al processo risorgimentale, e quindi depositario di risorse ideologiche, simboliche e rituali utilizzabili per finalità nazionali, tende ad acquistare un altissimo valore identitario dopo il raggiungimento dell’Unità; ancorché, spiega Conti, «quella che di lui si affermò nel corso dell’Ottocento non fu un’immagine totalmente ecumenica» perché nel discorso pubblico prevalse la narrazione foscoliana del “ghibellin fuggiasco”, «fatta propria da generazioni di patrioti di fede democratica e liberale». E, per quanto anticipata dal Tommaseo (non va scordato che fu proprio lui a curare e a dare alle stampe alla fine degli anni Trenta il saggio di Mazzini, Dell’amor patrio di Dante, che, nella sottolineatura del guelfismo del fiorentino, ha fatto giustamente supporre ad Andrea Bocchi un’ingerenza tommaseana) «la riscoperta da parte dei cattolici e la riappropriazione del “divin poeta” come simbolo supremo della religiosità cristiana si collocarono fra la vigilia della Prima guerra mondiale e l’avvento del fascismo» (Conti). Il quale poi «ebbe facile gioco nell’ascrivere il poeta fiorentino fra i massimi simboli identitari della nazione e del regime stesso» (Conti).

Abbattuto Mussolini, «fin dall’immediato dopoguerra si determinarono la riscoperta e la definita valorizzazione dei contenuti universali dell’opera poetica di Dante, rimasti fin lì come soffocati dall’enfasi posta sull’etichetta di profeta della nazione» (Conti), un riconoscimento che apre da un lato una stagione ricchissima di studi e messe a fuoco critico-filologiche, dall’altro inaugura un «processo che ha fatto di Dante e della Commedia, a cavallo tra la fine del XX e l’inizio del XXI secolo, simboli riconosciuti e riconoscibili della cultura di massa dell’età della globalizzazione e dei nuovi media» (Conti).

Fin qui l’ossatura del libro; che però guadagna la sua maggior ricchezza di spunti, osservazioni e scoperte grazie alla selva di citazioni, di appropriate sottolineature e di messa in risalto di figure ed episodi emblematici nei cinque capitoli che lo costituiscono, tappe, ciascuna caratterizzata da aspetti specifici e particolari, della “monumentalizzazione” simbolica del “Sommo italiano” nel corso dei due ultimi secoli: Il Dante dei romantici, Il centenario del 1865, La “dantomania” dell’età liberale, Il culto nell’Italia fascista, Da simbolo nazionale a icona globale.

Ma vediamo, sia pure in modo rapido, con ordine. Come già si diceva il Romanticismo, epoca di eroi ed esuli per amore di libertà, individua in Dante un antesignano della propria indisponibilità a compromessi e cedimenti (è il caso di Alfieri, che riconosce in Dante uno spirito gemello, anch’egli, e qui ci appoggiamo al ritratto dell’Astigiano proposto dal De Sanctis, «statua gigantesca e solitaria col dito minaccioso»). Ed è nel Romanticismo, per cambiare registro, che la passione per Dante fa un’illustre vittima, il culto di Petrarca (come ha ben spiegato Amedeo Quondam), così tanto presente anche in autori che cederanno in seguito alla “dantemania” (si pensi alle Ultime lettere di Jacopo Ortis del giovane Foscolo). L’infatuazione non è solo italiana: in quel suo Corinne ou l’Italie, tanto caro a Leopardi, Madame de Stäel definisce il poeta fiorentino «l’Omero dei tempi moderni», e Byron, autore di The Prophecy of Dante (1821), anticipa «l’uso politico che la generazione risorgimentale fece di Dante» (Conti).

Se non mancò il caso limite di un Dante esoterico (su cui volle spendersi Gabriele Rossetti), prevalse nettamente l’immagine del poeta vate, di un profeta, come scrisse Gioberti, anticipatore delle speranze e dei progetti di una nuova Italia, libera e indipendente. Un’idea questa che continua ad aleggiare grazie a coloro che, sull’onda lunga dei moniti di Carlo Azeglio Ciampi, hanno a cuore, più che la correttezza storico-filologica dell’approccio, la necessità di un rinvigorito patriottismo. Così il giornalista Cazzullo, che nel capitolo VIII (Dove Dante fissa i confini d’Italia) del suo men che modesto A riveder le stelle, a proposito del verso in cui si cita il Quarnaro, «ch’Italia chiude e suoi termini bagna», dichiara che «è un verso particolarmente doloroso. Perché è stato citato da generazioni di irredentisti, e poi di esuli. Perché indica un pezzo d’Italia che ci manca». Oppure Sergio Mattarella che, sul Corriere della Sera, suggerisce che «Dante è in realtà il grande profeta dell’Italia, un patriota visionario, destinato, quasi biblicamente, a scorgere ma non a calcare la terra vagheggiata e promessa». Torsione dunque integralmente “nazionale”, che si affianca a inni, bandiere, pattuglie acrobatiche e sfilate su via dei Fori Imperiali per celebrare la nostra discutibile grandeur, e che spesso va insieme a considerazioni di ordine linguistico (Dante definito, con parecchia approssimazione, come il “padre” dell’italiano), evitando accuratamente di richiamare l’attenzione sull’inesausto impegno morale («e lascia pur grattar dov’è la rogna / […] / Questo tuo grido farà come vento / che le più alte cime più percuote»), non sia mai che per l’irriducibile intransigenza in questioni di ordine etico-religioso, sia nella prospettiva del “privato” che del “pubblico”, il rigoroso fiorentino venga considerato un anticipatore del Partito d’Azione, o peggio, inserito nel tanto vituperato gregge dei giustizialisti, a turbare quella indulgente auto-celebrazione del Bel Paese che ci ammaniscono quotidianamente le sue élite e la stampa al seguito.

L’apice del culto dantesco nell’Ottocento italiano si tocca nel 1865, quando a Firenze, nuova capitale, va in scena «la prima grande festa nazionale del Regno» (Conti). In Piazza Santa Croce, nel corso di tre giorni di festeggiamenti che più d’uno giudicò inappropriati (14, 15, 16 maggio), venne scoperto un monumento al Sommo Italiano, il volto segnato da quell’espressione severa se non arcigna di uomo indisponibile ad ogni compromesso e che ha a cuore, sovra ogni cosa, il bene della Patria, che fa ormai parte della sua iconografia. Sfilarono, ricorda Conti, i labari di città ancora in mano allo straniero o soggette a despoti italiani in abito corale, Venezia e Roma, mentre a Trieste, non ancora l’“irredenta” par excellence, la Società di Minerva, la massima associazione culturale di lingua italiana della città, promosse una serie di partecipate iniziative pubbliche e animò i modesti poeti locali, Giovanni Tagliapietra per esempio, a cantare di Dante “dantescamente”, ovvero in terzine (il seme, è bene accennarlo, era stato piantato a San Giusto già negli anni Quaranta da Francesco Dall’Ongaro, uno dei “favillanti” con lezioni e  conferenze di tema dantesco; per tutto ciò imprescindibile, ad ogni modo, Manuela Brunetta, Tra giornalismo e rivoluzione, Il Poligrafo, Padova 2018).

Il Secondo Ottocento, rileva Conti, fu caratterizzato da una vera, internazionale dantemania (lo storico preferisce il lessema dantomania). E mentre in Italia il culto del Poeta assurge alle dimensioni di una vera religione civile (un «monoteismo dantesco» – Conti), sorgono associazioni culturali di esplicito carattere dantesco (nel 1888 la Società dantesca italiana), vengono create delle cattedre di studi specifici e il nome Dante appare sempre più spesso nell’onomastica, seguendo l’esempio di Charles Gabriel Dante Rossetti, il grande preraffaellita. Si consolida «il processo di monumentalizzazione reale e metaforica del poeta» (Conti) e, grazie alla scuola e alla diffusa lettura della Commedia assurta a opera-mito e a imprescindibile tassello della cultura umanistica, si radicano stabilmente nella lingua delle persone colte quelle formule dantesche che, fino a ieri, erano presenti nell’idioletto dei ceti scolarizzati (lasciate ogni speranza voi ch’entrate; vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole; ecc., ecc., ad infinitum).

Nel contempo massoni e irredentisti scorgono in Dante la guida luminosa per un’Italia stato-nazione da completare, come si vide in occasione delle cerimonie ravennati del 1907 alle quali affluirono giuliani, istriani, dalmati e fiumani, per trarre dalla tomba del Grande gli auspici e le garanzie per un futuro “italianamente” radioso, sulle sponde di quel Mare Nostrum da cui anche Ravenna è lambita. Ai vagiti del nascente imperialismo italiano darà voce l’anno seguente La nave di D’Annunzio, che, con Francesca da Rimini, ha già pagato, vale notarlo, un suo esplicito tributo dantesco: «arma la prora e salpa verso il mondo!» Negli anni della guerra e poi, con il fascismo, «il nome di Dante […] più ancora di quanto era avvenuto nei decenni precedenti, venne largamente utilizzato, nelle più diverse forme, come simbolo di italianità» (Conti); e poco servirono le cautele di Croce, antiretorico per natura: Dante era ormai divenuto il nume di una pervasiva “idolatria” patriottica. La nuova grande cerimonia dantesca che si tenne a Ravenna nel 1921 vide sfilare i «legionari fiumani di Ravenna, Bologna e Forlì»; assente invece il permaloso D’Annunzio, per protesta contro le posizioni rinunciatarie dell’Italia ufficiale. Le celebrazioni fiorentine e romane dello stesso anno, ebbero un’impronta marcatamente nazionalista: su tale sfondo in via di definizione, la destra movimentista e di governo fece del proprio meglio per fagocitare Dante, il «più glorioso e autentico rappresentante della stirpe mediterranea» (Fabio Frassetto, in Conti) riuscendo perfino a strumentalizzarlo per legittimare la legislazione razziale. Del resto, e qui siamo di nuovo al profetismo, nel Veltro annunciato da Dante non era forse perfettamente riconoscibile, spiegava Giovanni Giuriati nel 1923, Benito Mussolini?

Nell’ultimo capitolo, la sfida anche metodologicamente più impervia perché non è facile fare storia del presente, Conti insegue le tracce della fortuna di Dante oggi (sul piano, ribadisco, della cultura diffusa e “popolare”, non sul terreno della critica letteraria) aprendo il discorso con l’osservazione che «nell’Italia del secondo dopoguerra Dante conservò il suo carattere di principale simbolo identitario della nazione, ma senza il feticismo fideistico che si era visto nel precedente secolo e mezzo» (Conti); un processo che convive con l’assunzione di un ruolo più ampio e universale («simbolo universale dei valori della poesia e dell’arte», Conti), celebrato con importanti riflessi epocali, nella manifestazione commemorativa tenutasi nel 1965 presso la sede Unesco di Parigi. Solo un anno dopo, tappa fondamentale per il Dante degli studiosi e delle persone colte, prende avvio l’iniziativa dell’Enciclopedia dantesca, opera di consultazione e di studio assolutamente imprescindibile.

Tra l’Inferno di Topolino del 1949-50 e il recentissimo Inferno (2013) di Dan Brown si dispiega intanto il processo che fa del Sommo poeta una vera e propria icona pop internazionale dell’epoca della cultura di massa, globalizzata e multi-mediale. Dante appartiene ormai in pieno alla società mondiale, senza perdere però «un ruolo assolutamente centrale nel discorso pubblico italiano degli ultimi decenni» (Conti), posizione riconosciuta e istituzionalizzata con l’invenzione del Dantedì.

L’istruttiva “galoppata” di Conti si conclude qui, offrendo ai lettori molta materia di riflessione e agli studiosi un importante quadro di riferimento che potrebbe tornar utile per approfondire qualche altro aspetto dell’uso ed abuso di Dante, inteso come punto di forza ed espressione più alta dell’identità italiana, bisognosa, da sempre, di qualche rinforzo (non capita spesso la fortuna del podio più alto ai Campionati europei di calcio).

 

Fulvio Conti

Il Sommo italiano

Dante e l’identità della nazione

Carocci, Roma 2021

  1. 242, euro 18,00