Un canzoniere di Renzo Favaron
Il Ponte rosso N° 67 | marzo 2021 | Maurizio Casagrande | poesia
di Maurizio Casagrande
Occorre partire da una preventiva lettura del titolo, che rievoca alla lontana il Piccolo canzoniere in dialetto triestino di Virgilio Giotti rivelando e ad un tempo occultando, per intendere la più recente raccolta in lingua del poeta veronese. Se infatti è palese – e viene ribadito ulteriormente con la citazione in esergo della chiusa del sonetto 229 di Petrarca – l’intento di prender spunto, pur se in chiave antifrastica, dal gigante di Arquà per un serrato confronto sui temi del trascorrere inesorabile del tempo, del tormento d’amore, dell’approfondimento psicologico, dell’autobiografismo o della frequentazione dell’area semantica della navigazione, non è meno significativa la precisazione che tale “canzoniere” è «più bugiardo che vero», nel senso che tutto cambia rispetto al modello, dalle scelte metriche alla maniera di trattare i temi, come pure rispetto alle finalità artistiche.
Se peraltro Ser Francesco resta sempre sullo sfondo quasi a mo’ di convitato di pietra, ben controbilanciato dalla dissimulata ma costante presenza di Dante, strada facendo il cammino di Favaron viene ad incrociarsi con i passi di compagni di strada molto più prossimi nel tempo, partendo dagli idilli leopardiani con la luna, per passare alle tonalità malinconiche nei Crepuscolari di primo Novecento la cui eco è riconoscibile ad esempio nella lirica Commento di p. 31 (nelle voci di Corazzini e Moretti, soprattutto), agli sconfinamenti nel prosaico o nel sarcastico del tardo Montale di Satura (si veda la strofe finale di Ridolini, pp. 63-64), a Sbarbaro o Caproni, fino all’Artaud di Cogne et fautre (citato espressamente nel refrain della lirica Non dire più di questo, p. 103: “tu. / Ya menin. / Fra te sha.”), ovverosia al rovesciamento e quasi all’antitesi del petrarchismo e di ogni altra maniera letteraria, con lo spingersi sino ai limiti massimi della lingua nei domini insidiosi della glossolalia o dell’afasia quali estreme risorse della poesia.
Al sistematico abbassamento di tono, però, Favaron affianca la costante ricerca di una modulazione timbrica che sembra guardare piuttosto alla lezione di Metastasio o a certe arie di Mozart e Monteverdi, così da compensare uno squilibrio peraltro solo esteriore e apparente.
Articolata in tre sezioni, la raccolta vede campeggiare al centro dall’inizio alla fine il nome, più foscoliano (o montaliano) che petrarchesco, di Cynthia.
Un canzoniere, si diceva, ma molto sui generis dal momento che non si propone alcun intento celebrativo dell’amata e che dalle forme per così dire “petrose” della prima sezione si arriva progressivamente ad una modulazione sempre più melodiosa dei versi riconoscibile nel ricorso via via più frequente a rime e assonanze, come nella costruzione di strofe che tendono sempre più ad avvicinarsi alla forma chiusa.
Né andrà taciuto il ricorso, peraltro misuratissimo, al dialetto, registro che Favaron mostra di preferire nel trattare il topos petrarchesco dell’interrogazione sulla morte o del suo inesorabile trionfo: appena tre liriche, l’ultima delle quali rappresenta una variazione su un testo di Apollinaire frutto di lontane reminiscenze (e suggestioni) scolastiche: «Marsisse on fio de erba zaleta / in te sta ora / cussì ligia a la funsion de l’adio. / Ma ti ricorda che te speto» («Marcisce un filo d’erba gialla / in quest’ora / così ligia al rituale dell’addio / Ma tu ricorda che t’aspetto», Mi/Io, p. 35).
L’ultima sezione Teatro del suolo, con un’apertura tutta veneta sui domini della pittura e delle arti, è ispirata invece ad alcune incisioni di fine anni Cinquanta di Jean Dubuffet, artista che guardava con vivo interesse al mondo dei folli, dei bambini o agli oggetti più comuni della quotidianità e che ben si coniuga al poetare franto di Favaron: «Bei tempi di Caproni, Sereni, Raboni // Ora è tutto frantumato come un piatto, / tutto dannatamente induce a scrivere / che il costo è sempre più alto del previsto» (Nebbia, II, p. 97).
Renzo Favaron
Piccolo Canzoniere
più bugiardo che vero
Controluna, Roma 2020
- 107. euro