Un cantautore italiano al Bataclan
ici a Paris | Il Ponte rosso N° 28 | Maurizio Puppo | ottobre 2017
Intervista di Altritaliani a Francesco De Gregori
Iniziamo, a partire da questo numero, una collaborazione col sito web http://www.altritaliani.net, che mensilmente ospiterà un articolo pubblicato sul Ponte rosso e cortesemente ci consentirà di pubblicare sulle nostre pagine un articolo prodotto da autori della colonia italiana a Parigi. Il primo è un’intervista curata da Maurizio Puppo al cantautore che il 20 ottobre ha tenuto un concerto al Bataclan.
Tra ottobre e novembre De Gregori, autore compositore e cantante molto noto e apprezzato in Italia, sarà protagonista di un tour nei club, con uno spettacolo inedito, che lo porterà sui palchi di alcune delle più importanti città europee e americane, come Londra, Parigi, New York e Boston per proporre live i suoi più grandi successi e alcuni tra i brani meno conosciuti del suo repertorio. A Parigi, De Gregori sarà il 20 ottobre al Bataclan. Un concerto da non perdere! Ecco le parole che ci ha affidato.
Maurizio Puppo: Buffalo Bill.Tra la vita e la morte, avrei scelto l’America. E la Francia, nella sua formazione?
Francesco De Gregori: La Francia è ovviamente un riferimento importante per la libertà, per la democrazia. Ma per quel che riguarda invece la musica, la mia formazione personale, a me la Francia è arrivata attraverso Fabrizio de André. Perché io non conoscevo Georges Brassens, non conoscevo Jacques Brel. I miei amori musicali di quando ero ragazzo erano la musica italiana d’autore e un po’ di musica americana, i Beatles, i Rolling Stones. De André invece era figlio proprio di quella musica, ed è attraverso de André che quella musica è arrivata fino a me.
M.P.: La storia Quando si tratta di scegliere e di andare, te li ritrovi tutti con gli occhi aperti, che sanno benissimo dove andare. Frase bellissima. Ho il dubbio che non sempre sia vera.
F.D.G.: Le frasi di una canzone sono contenute all’interno di un discorso letterario, non possono essere prese in quanto tali come affermazioni definitive… Ma certo, in questo momento storico diciamo che ci vuole un po’ di ottimismo per dire che la gente sa benissimo dove andare. Sembrerebbe proprio di no, in questo momento.
M.P.: Viva l’Italia. L’Italia che si dispera, l’Italia che si innamora. L’Italia è proprio questa cosa qua?
F.D.G.: L’Italia è un paese irrazionale, un paese sentimentale. Anche nelle scelte politiche, a volte.
M.P.: Generale: La guerra è bella (anche se fa male). Qualcuno, che non seguiva per niente la musica, mi disse, “roba da matti, cantano che la guerra è bella”. Ha mai il timore di essere frainteso?
F.D.G.: Be’, no, no. Nella circostanza, mi sembra chiaro che la frase di quella canzone volesse dire esattamente il contrario.
M.P.: La valigia dell’attore. Abbiam lasciato soltanto un momento la nostra valigia di là. Com’è la sua vita in tournée? In città che non conosce?
F.D.G.:Se riesco a godermi la vita sulla strada? Sì, sì, assolutamente. Io sono un uomo di abitudini normali, quindi quando lavoro continuo ad avere una vita normale. La mia vita è quella, e fa parte del mio mestiere, così come ne fanno parte i viaggi, gli alberghi. È una cosa che ho messo in conto e a cui sono abituato.
M.P.: Atlantide. Lui adesso vive ad Atlantide. È diventato un grosso suonatore di chitarra. Guccini ha detto, a chi gli chiedeva un parere su Bowie, “di musica me ne intendo poco”. Ma lei, nel mondo della canzone d’autore, ha una matrice più musicale rispetto ad altri.
F.D.G.: Io mi considero soprattutto un musicista. Non do molta importanza ai testi che scrivo. La gente dà sempre una grande importanza alle parole, ma in realtà io mi considero uno che fa musica. Se non avessi scritto la musica, le note, se non fossi un cantante, nessuno se le ricorderebbe, le mie parole. Sì, mi considero un musicista. Non un “grandissimo” musicista, ma sono un musicista.
M.P.: Le storie di ieri. I poeti, che brutte creature. Un poeta importante per lei?
F.D.G.: Un poeta italiano che io amo molto è Giorgio Caproni. Per la semplicità, la sincerità. Io ho avuto la fortuna di sentirgli leggere una sua poesia. Ero invitato a un convegno su Pier Paolo Pasolini che era morto da poco, c’erano molti poeti e tra loro c’era anche Caproni, che lesse una sua poesia. È un ricordo bellissimo. Caproni aveva una grande umanità, dice? Sì, sì, certo. Una grande umanità, e anche una grande timidezza, come molti poeti hanno. Un uomo molto timido, come era anche Eugenio Montale. Poi, in realtà non è che quella volta mi misi a parlare con lui a cena. Lo vidi soltanto. C’era un piccolo palcoscenico dove stavano tutti gli altri poeti che recitavano le loro poesie. E Caproni mi fece un’enorme impressione. Se ci sono tracce di Caproni nelle cose mie? No, non credo che ci siano tracce di Caproni nelle cose mie. Sono cose separate. No, no.
M.P.: Niente da capire. Ma io non lo sapevo, che era una partita. Una canzone che non avrebbe voluto scrivere? Che oggi le fa dire “oh mamma mia!”.
F.D.G.: No, sinceramente no. Alcune mie canzoni sono più brutte di altre, come sempre capita. Ma dire proprio “accidenti a me, vorrei non averla scritta”, no, sinceramente non mi è mai successo. Forse sono troppo immodesto, non lo so.
M.P.: La donna cannone, Ma voleremo in cielo in carne e ossa, non torneremo più. Le è capitato di avere scritto qualcosa di talmente riuscito da suonare definitivo? E che le ha reso difficile riprendere, dopo, l’attività creativa?
F.D.G.: No, anche qui vale lo stesso discorso di prima. Posso avere scritto canzoni più belle di altre, ma quando ti metti a scrivere una canzone nuova non ci pensi, non entri in competizione con quelle vecchie. Segui un altro tipo di ispirazione, che in quel momento non ti fa guardare indietro. Sei diverso e quello che stai scrivendo cerca di dare un senso a un’emozione, a una sensazione che vivi in quel momento. E quindi non è che ti confronti con il tuo passato, no. Casomai provi a confrontarti con le canzoni scritte da altri, se ti riesce.
M.P.: Buffalo Bill. Vent’anni sembrano pochi, poi ti volti a guardarli e non li trovi. Roma è davvero molto cambiata rispetto a quella dei suoi vent’anni?
F.D.G.: Ah be’, certo, come deve essere molto diversa Parigi rispetto a quarantacinque anni fa. Le città cambiano. Certo, certo, è molto diversa. Fondamentalmente la differenza che mi colpisce di più, la prima cosa che mi viene da pensare, la cosa più evidente, è il traffico.
M.P.: La valigia dell’attore. E quanta gente ci sta, e se stasera si alza una lira. Tra il suo pubblico, c’è chi viene a cercare soprattutto i brani storici, e magari chi cerca altro.
F.D.G.: Certo. Io devo fare una scaletta che abbia un equilibrio tra i pezzi storici, quelli che la maggior parte del pubblico vuole sentire, e anche magari canzoni che sono meno conosciute ma che sembrano buone, giuste per quella serata. Non mi va di fare una scaletta solo di grandi successi. Mi annoierebbe. Ma forse annoierebbe anche il pubblico, no? Diventerebbe un rito autocelebrativo, sì. E anche un po’ meccanico.
M.P.: Guarda che non sono io. Guarda che non sono io quello che stai cercando. Non la infastidisce mai rifare le sue canzoni più celebri?
F.D.G.: Non mi infastidisce, no. Anzi, mi diverte molto rifare le mie canzoni. Sennò farei come ha fatto Lucio Battisti. È chiaro che se un artista si rompe le scatole di andare in giro, va rispettato per quello. Tanti artisti lo hanno fatto. I Beatles lo hanno fatto. Mina lo ha fatto. Lo ha fatto anche Battisti. Questa è una scelta più che rispettabile. È diverso se hai voglia di continuare a lavorare. C’è gente come Leonard Cohen che ha continuato a lavorare sul palcoscenico fino all’ultimo. In Francia c’è Charles Aznavour, che è un altro esempio di grande longevità sul palcoscenico. Dipende da cosa hai nella testa. Se vuoi smettere, smetti; se vuoi continuare, continui fino a novant’anni.
M.P.: La valigia dell’attore. Per questa voce che dovrebbe arrivare fino all’ultima fila. Lei preferisce cantare in locali appartati, credo.
F.D.G.: Mi diverte cantare ovunque. Però ogni tanto mi metto dalla parte dello spettatore, anzi, di me stesso quando vado a sentire il concerto di un altro, di un artista che mi piace, che ammiro. E allora so che preferisco ascoltarlo in un posto più piccolo piuttosto che in un grande spazio, in uno stadio. Se vado a sentire Bob Dylan, che è uno degli artisti che mi piacciono di più al mondo, preferisco sentirlo in uno spazio da duemila, tremila persone, anche da mille magari, se fosse possibile, piuttosto che andarlo a sentire in un grande spazio. È in quel senso lì che io preferisco i piccoli spazi. Per me, quando canto, poi alla fine non è che cambi molto, non cambio sonorità a seconda di dove sto, e neppure cambio il modo di cantare. Invece, le cose cambiano per il pubblico; come spettatore preferisco stare in un posto piccolo, bermi una birra mentre qualcuno sta cantando una canzone che mi piace. Molto meglio che ritrovarmi in un grande stadio dove il cantante magari devo vederlo su un grande schermo piuttosto che dal vivo.
M.P.: E noi – noi “Altritaliani” e italiani parigini, la vedremo presto, a Parigi, il 20 ottobre, proprio in uno spazio (il Bataclan) che di grandi schermi non ha bisogno. E ne siamo molto contenti. Grazie.
F.D.G.: Viva la Francia, allora! Spero che il concerto le piacerà. Grazie.
Intervista a cura di Maurizio Puppo