Un ABC per Dante
Dante 700 | Francesco Carbone | giugno 2021 | Il Ponte rosso N° 70
Per la Commedia, tra i compagni di viaggio migliori c’è Erich Auerbach, del quale ritroviamo in libreria i classici Studi su Dante
di Francesco Carbone
Tanto più per le cose che amiamo, abbiamo bisogno di sguardi illuminanti: la descrizione della Gioconda di Gombrich, le pagine di Simone Weil sull’Iliade, di Auden su Shakespeare e di tante altre. Per la Commedia, tra i compagni di viaggio migliori c’è Erich Auerbach, del quale ritroviamo in libreria i classici Studi su Dante (Universale economica Feltrinelli 2017). Proviamo a ricavarne un incompletissimo ABC, magari come prima dose contro le più paludate e rituali celebrazioni che si fanno eco l’un l’altra: equivalenti di corone di fiori sull’Altare della Patria prima di correre a pranzo.
BEATRICE: «Per la nostra indagine è indifferente sapere chi era Beatrice, e se essa sia vissuta davvero; la Beatrice della Vita nuova e della Commedia è una creazione di Dante e non ha quasi a che fare con una giovane di Firenze che più tardi sposò Simone de’ Bardi». Questo nel primo saggio della raccolta: Dante, poeta del mondo terreno del 1929. Vent’anni dopo, Auerbach recensisce l’altrettanto fondamentale Letteratura europea e Medioevo latino di Ernst Robert Curtius: Curtius non crede che la Beatrice che innamorò misticamente il giovane Dante nella Vita Nova sia la stessa santa salvifica della Commedia. Auerbach: «e invece lo è: è un’anima umana redenta, che una volta ha vissuto a Firenze e che in vita ha mutato l’esistenza di Dante: lo dice Dante stesso e lo fa dire a Beatrice» (E. Auerbach, San Francesco, Dante, Vico, Editori Riuniti 1987).
Quanto Dante vedeva in Beatrice fu un problema irrisolvibile già per molti dei suoi contemporanei. Il più salace fu Dante da Maiano che, rispondendo al primo sonetto della Vita nova, consigliò il giovane Alighieri di lavarsi in acqua fredda le «coglia largamente, /a ciò che stinga e passi lo vapore / lo qual ti fa favoleggiar loquendo» (Di ciò che stato sei dimandatore). Tra le insofferenze più celebri verso l’enigmatica creatura, c’è prima di tutti Cavalcanti. Saltando ai nostri tempi, tra i miscredenti Benedetto Croce (di cui si ripubblica La poesia di Dante, Bibliopolis 2021) la trovava «poeticamente irreale»; la giovane donna infatti, «che così poco dimostra di sé stessa, fuori dell’incanto che diffonde col suo apparire, ha la storia che le si confà, la storia delle apparizioni angeliche; perché come essere che non è della terra, che non ha niente da fare né da amare sulla terra, presto muore, o piuttosto trapassa». Giorgio Inglese, nel recente commento della Commedia (Carocci 2016), scrive che Beatrice è Dante. Come Madame Bovary è Flaubert?
Quello che poeticamente per Auerbach dovrebbe contare è che «Beatrice, la beata, è la necessaria mediatrice della salvezza per gli uomini che mancano di conoscenza» (Studi su Dante), e cioè noi: Ma noi cerchiamo di godere della poeticità di Beatrice senza convertirci a ciò che ci dice Dante di Beatrice: il lettore moderno si accontenta di credere che lo sia per lui, una santa appena personale: ma non è questo che voleva Dante.
CARATTERE DI DANTE: «…nella sua impressionante mescolanza di orgoglio solitario e solitaria impotenza, di libertà e do costrizione, di ardente nostalgia e di inflessibilità, [la speranza di Dante] ha l’impronta di ciò che appare fatale e necessario […], ma egli non dominò, e invece visse povero e solitario. Rettificare e superare questa disarmonia della sorte, non nel ritiro storico-ascetico, ma seguendo e assoggettandolo e riordinandolo in ispirito, fu il compito che gl’impose il suo carattere». Nel primo degli Studi su Dante, Auerbach mette in esergo: «il carattere dell’uomo è il suo destino» (Eraclito).
DIFFICOLTÀ DEL PARADISO: «Le anime del Paradiso hanno subìto un mutamento di figura generale e non superabile da occhi umani: lo splendore della loro beatitudine le tiene nascoste, Dante non le può riconoscere; devono dire esse stesse chi sono e i loro sentimenti, non possono servirsi facilmente di un’espressione, di un gesto individuale; ormai è solo lo splendore che manifesta un sentimento personale. C’era il pericolo di una spersonificazione troppo forte e di una ripetizione monotona, e spesso si è sostenuto che Dante non l’abbia superato: il Paradiso non possederebbe il vigore poetico delle prime due parti. Ma tale critica all’“ultimo lavoro” di Dante nasce dal pregiudizio romantico […] e dimostra che il critico non sa abbandonarsi a tutto l’insieme del soggetto di Dante. […]. Il rivelarsi è più tenue…».
Tra i «romantici», Francesco De Sanctis vide nella perdita di individualità delle anime sante il «concetto» del Paradiso (F. De Sanctis, Lezioni e saggi su Dante, Einaudi 1955); Croce lesse la cantica come «una serie di encomi». – Che la lettura del Paradiso implichi difficoltà senza confronti ce lo dice Dante stesso all’inizio del secondo canto: «O voi che siete in piccioletta barca, […] non vi mettete in pelago, ché forse, / perdendo me, rimarreste smarriti» (Par. II 1 e 5-6).
FARINATA E CAVALCANTE: Farinata e Cavalcante è il titolo di un saggio fondamentale che si legge in Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale (Einaudi 1956). È dedicato alla prima parte dell’XI canto dell’Inferno, dove Dante si muove tra le arche di fuoco in cui bruciano gli atei. Qui lo interroga Farinata degli Uberti, già capo dei ghibellini, che, incurante del fuoco che lo brucia, vuol parlare di politica, di fazioni e di vendette: come se persino lì fosse solo questo che contasse. Emerge all’improvviso dalla stessa arca Cavalcante, il padre di Guido, che subito chiede a Dante: «se per questo cieco / carcere vai per altezza d’ingegno, / mio figlio ov’è? E perché non è teco?» (Inf. XI, 58-60). La risposta è incerta, ambigua, forse non solo involontariamente funesta. Cavalcante sconvolto si ricaccia nel fuoco. Farinata riprende a parlare di guelfi e ghibellini come se non avesse ascoltato nulla: autistico come la gran parte delle anime infernali. Tutto, scrive Auerbach, «accade con una concentrazione e tensione drammatica inaudite», con una lingua che «appare quasi un miracolo inconcepibile»: «qui vi è una condensazione d’avvenimenti maggiore che in qualunque altro dei luoghi da noi finora esaminati [n.d.r. in tutta la letteratura occidentale], e non soltanto non ve ne sono di più gravi e drammatici, ma neanche di più vari in così breve spazio», con «una ricchezza di mezzi stilistici quale nessuna lingua volgare europea conosceva prima di lui, e non li impiega soltanto singolarmente, ma li pone in continuo rapporto reciproco».
INATTUALE: Subito dopo Dante, «termina in Italia il Medioevo letterario» (E. Auerbach, Introduzione alla filologia romanza, Einaudi 1963). Dante stesso vede bene, e con orrore, di essere sul bordo di un abisso, di quel processo per lui catastrofico che noi posteri chiamiamo secolarizzazione e lui «selva»: tramonto di Dio, idolatria per sesso, superbia e avidità, trionfo di banche e commerci, dominio di poteri che non cercano altra giustificazione che nella loro forza. La Chiesa stessa non era ormai per Dante che questo: non più santa, non più profetica. Satana non aveva che da goderne: «onde ’l perverso /che cadde di qua su, là giù si placa» (Par. XXVII, 26-27).
Auerbach: «quando Dante lamenta e condanna la disunione, le lotte e le catastrofi del suo tempo, non gli viene neppure per un attimo il pensiero che vi si possa preparare una nuova forma e un nuovo ordinamento della vita, immanente eppure fruttuoso» (Studi su Dante). Stravolto il mondo, «non c’è nessuno che abbia rielaborato e continuato la sua opera, presa nel suo insieme. Nessuno ha potuto continuare o completare la costruzione del mondo e della storia contenuta nella sua opera, perché quella costruzione crollò» (E. Auerbach, Lingua letteraria e pubblico nella tarda antichità latina e nel Medioevo, Feltrinelli 2007).
PATRIA/IMPERO. Nella sempre meravigliosa Enciclopedia Dantesca (Treccani 1970-1978, ora gratuita on-line) la voce Patria è di poche righe; Italia è già più corposa: vi leggiamo che «L’Italia è per Dante fondamentalmente una regione naturale e una regione linguistica». Ben altra dimensione ha la voce Impero (di Pier Giorgio Ricci). L’Impero cristiano era per Dante la sola costituzione politica giusta. Navigando sempre nell’Enciclopedia Dantesca, la voce Impero andrebbe intrecciata almeno con Autorità e Monarchia. Nel 1329 il trattato Monarchia fu bruciata perché giudicata eretica; nel 1559 è nel primo Indice dei libri proibiti; la condanna fu confermata sino alla fine del XIX secolo.
Nel Paradiso, Dante contempla il seggio già pronto per Arrigo VII, che imperatore non lo fu mai, e che fu la sua ultima speranza politica di una restaurazione impossibile. Auerbach: «l’atteggiamento concettuale di Dante è quello difensivo di un conservatore e la sua lotta tende alla riconquista di ciò che è già perduto. In questa lotta egli fu vinto, e le sue speranze e le sue profezie non si compirono mai» (Studi su Dante): mai.
PROFETA DELLA VENDETTA. «Non è dubbio che Dante vede sé stesso in una missione importante quanto quella di Enea: egli è chiamato ad annunciare al mondo dissestato l’ordinamento giusto, che gli viene rivelato nel suo cammino» (Studi su Dante). Si perderebbe moltissimo della forza di Dante se si mettesse da parte questo contrasto con un mondo che sente sempre meno suo. Firenze: «giusti son due e non vi sono intesi» (Inf., VI 73).; «dai lor costumi fa che tu ti forbi (Inf. XV, 73), e dall’esilio «a te fia bello / averti fatta parte per te stesso» (Par. XVII 68-69). Il mondo è «selva», da cui scampano in pochi e solo per grazia di Dio: si conferma che «stultorum infinitus est numerus (Ecclesiaste, I, 15), mentre pochi seggi sono ancora liberi in Paradiso.
Condizione tremenda è quella profetica, perché mentre il profeta annuncia, Dio tace: «o difesa di Dio, perché pur giaci?» (Par. XXVII 57). San Pietro contempla il trionfo di Satana: il papa «fatt’ha del cimitero mio cloaca / del sangue e de la puzza; onde ’l perverso /che cadde di qua sù, là giù si placa» (Par. XXVII 25-27). È del profeta essere vox clamantis in deserto (Vangelo di Marco, 1, 1-3), essere messianismo in un mondo di folli (follia è un termine chiave dell’Inferno). Il profeta condivide, scrive Auerbach, il fallimento di Cristo: «l’avvento immediato del regno di Dio in terra […] penosamente fallì» (Studi su Dante). La Speranza, «attender certo / de la gloria futura» (Par. XXV, 67-8), si proietta in un tempo indefinibile, per quanto sempre affermato prossimo: «O Segnor mio, quando sarò io lieto / a veder la vendetta che, nascosa, / fa dolce l’ira tua nel tuo secreto?» (Pur. XX 94-96). Cesare Garboli, un po’ di anni fa scrisse su la Repubblica che «Dante è un uomo che sapeva odiare».
SERMO HUMILIS. Il vocabolario della Commedia è amplissimo (quasi 13.000 parole): un arco che va dall’infimo (merda, puttana, culo, porco…) al sublime (tutto il vocabolario della luce, i sillogismi più ardui, i paradossi della mistica), per un «poema sacro» (Par. XXV 1) che deve dire tutto quanto sia dicibile.
Se l’Eneide che Dante sapeva «tutta quanta» (Inf. XX 114) è tragedìa, tutta tenuta nel registro alto degli eroi dell’epica, quella di Dante è comedìa (Inf. XXI 2), capace di scendere e salire la scala dei generi anche improvvisamente, anche nel cuore del Paradiso, con dissonanze fortissime: «Di quest’ingrassa il porco sant’Antonio» dice Beatrice nel XXIX del Paradiso. Gianfranco Contini parlerà di «sperimentalità incessante» e «plurilinguismo» di Dante, opponendolo all’«unità di tono e di lessico» di Petrarca (Preliminari sulla lingua del Petrarca, Intr. al Canzoniere, Einaudi 1964).
Petrarca restaurò una distinzione tra i generi che era pagana. Il cristianesimo nasce da un libro sacro che tutti invece mischia: nella Bibbia «nessun genere di parole è evitato» (Agostino, De trinitate, 1 2). È il sermo humilis. Auerbach ne ricostruisce il filum che avrà «il massimo documento di questa sublimità cristiana» proprio nella Commedia (vedi Sermo humilis in Lingua letteraria e pubblico nella tarda antichità latina e nel Medioevo, Feltrinelli 2007).
Erich Auerbach
Studi su Dante
Versione italiana di
M.Luisa De Pieri Bonino
e Dante Della Terza
Feltrinelli, Milano 2017
- XXI-330, euro 13,00