Turismo e cultura
Editoriale | Il Ponte rosso N°92 | maggio 2023
Ci eravamo lasciati, chiudendo l’editoriale dello scorso mese, con una frase, neanche tanto velatamente polemica, secondo la quale appare opportuno: «attendere che la Cultura – con la maiuscola – cessi di essere considerata come la sottosezione povera dell’Assessorato al Turismo».
Non ho cambiato idea, anzi: mi viene in soccorso sull’argomento, a conferma di quella mia opinione, il parere espresso sul Corriere della Sera di oggi (24 aprile, NdR) da Gian Antonio Stella a mezzo di un articolo significativamente intitolato Gli assessori alle sagre, preceduto da un occhiello irridente che recita Dagli «sbronzi di Riace» alla Festa del radicchio rosso, si guarda più al folklore che alla salvaguardia dei tesori.
Stella si riferisce nel suo articolo agli assessori regionali, mentre il mio articolo – più modestamente – teneva nel mirino gli assessori comunali, uno in particolare, ma non mi sembra che la sostanza cambi.
Attingere dai medesimi fondi per destinare risorse sia ad attività di tipo essenzialmente ricreativo sia a impegni di spesa destinati ad attività di studio, di promozione, di divulgazione, di conservazione o di accrescimento di beni culturali implica la possibilità di dar luogo a disequilibri anche clamorosi a vantaggio dell’uno o dell’altro ambito.
A rendere particolarmente probabili tali disequilibri concorre poi il fatto che le scelte in materia vengano affidate – come avviene per esempio a Trieste – all’arbitrio di un singolo, per di più auto-privatosi del conforto di consulenti quali un direttore di museo, possibilmente esperto di storia dell’arte o in materia di conservazione dei beni culturali, oppure anche del parere di un Curatorio che, pur deputato dal regolamento comunale a «elaborare le linee e gli indirizzi della politica culturale» del più importante museo cittadino, di fatto non è mai stato utilmente convocato a quasi un anno dall’elezione dei suoi membri da parte del Consiglio comunale, avvenuta il 20 giugno dello scorso anno.
Risulta allora quasi comprensibile la scelta di affidare a terzi le medesime linee ed indirizzi di politica culturale, anche se risulta scarsamente digeribile l’idea che tali “terzi” siano poi i fornitori (sempre quelli, tra l’altro) di mostre preconfezionate, offerte al Comune sulla base delle disponibilità presenti nei cataloghi delle ditte commerciali che stipulano il contratto con l’Ente pubblico.
Perseguire l’obiettivo di affidare l’elaborazione della politica culturale del Comune a privati, oltre a impoverire ulteriormente le competenze degli organici e dei consulenti indicati sulla base dei regolamenti comunali, ha l’aggiuntiva controindicazione di destinare ingenti risorse a tale discutibile bisogna, sottraendole ovviamente ad altri impieghi, tra i più essenziali dei quali quelli relativi alla tutela, alla conservazione e all’accrescimento delle collezioni di beni mobili ed immobili affidati alle cure del Comune.
Questo, per intenderci, da parte di un’amministrazione che tiene chiusi in un palazzo in attesa di ristrutturazione circa 400.000 volumi da oltre quindici anni, precisamente dal 12 aprile 2008, o che ha ricevuto in eredità un immobile di grande pregio sulla strada costiera come Villa Stavropulos oltre sessant’anni fa, nel 1960, lasciandolo deperire e vandalizzare fino a ridurlo a un rudere, anziché destinarlo, come da prescrizione del legato testamentario, a residenza per artisti e letterati. Per tacere del mancato acquisto di opere d’arte – anch’esso previsto dal testamento del barone Revoltella – per incrementare le collezioni del Museo intestato al generoso mecenate.
Si capisce d’altra parte che destinare risorse ed energie all’assolvimento di questi compiti che dovrebbero essere primari serve assai meno ad accalappiare turisti o crocieristi o ad acquisire visibilità sulla stampa – magari a pagamento – rispetto all’allestire una bella mostra, possibilmente di quelle cosiddette “immersive” ed “emozionali”, al Salone degli Incanti.