Traviata, traviate
Francesco Carbone | Fumetti | Il Ponte rosso N° 36 | luglio-agosto 2018
L’idea è quella di rappresentare a fumetti non il dramma, o il romanzo, di Dumas, ma disegnare l’opera lirica, disegnare la musica
di Francesco Carbone
Ecco una serie di metamorfosi sorprendente: 1848, Alexandre Dumas figlio (illegittimo) dell’autore dei Tre moschettieri e del Conte di Montecristo, visse un anno di passione bruciante per Marie Duplessis, la più famosa lorette di Parigi: non fu il solo. La Duplessis morì di tisi, a ventitré anni, nel 1847. Dumas scrisse di getto La Dame aux Camélias, che uscì nel fatale 1848 e che fu un successo immediato.
Si chiamavano lorettes le mantenute dai parvenu del tempo già estremo del regno di Luigi Filippo, l’ultimo re dei francesi prima della rivoluzione che Flaubert, nell’Éducation sentimentale, ridusse a un aforisma che potrebbe valere anche per il nostro Sessantotto: «fecero una rivoluzione e rimasero scemi per il resto della vita». – Lorettes perché frequentavano tutte la chiesa di Notre Dame de Lorette, non lontano dal Teatro dell’Opera: erano ragazze dotate di spirito, capaci di brillare nelle conversazioni e di ballare meravigliosamente. Entravano così nelle grazie di uno – o più – dei nuovi ricchi del primo Ottocento borghese: classe sociale che durerà quanto il capitalismo, vorace di successo e volgarissima. Come tutti sanno, nel libro Marie diventa Marguerite Gautier.
Dal romanzo, nel 1852 Alexandre Dumas ricavò un dramma teatrale di ancora più travolgente successo. Già l’anno dopo, il 6 marzo 1853, a Venezia esordì la versione immortale di Giuseppe Verdi, La Traviata, che dopo il «fiascone» (così lo definì lo stesso Verdi in una lettera) della prima alla Fenice, trovò il suo successo l’anno seguente al Teatro San Benedetto. Per esigenze di canto, Margherita Gautier era diventata Violetta Valéry. Oggi La Traviata è l’opera lirica più rappresentata al mondo.
La signora delle camelie diede inizio a una proliferazione di film, il più memorabile dei quali resta la Margherita Gautier del 1936 (titolo originale: Camille) di George Cukor, per molti l’interpretazione assoluta di Greta Garbo (ma si potrebbe opporle la Ninotchka di Lubitsch, nel quale, per la prima e ultima volta, la Garbo rise).
A questo fiume di versioni, ennesima dimostrazione che tanto più un’opera è viva tanto più s’immeticcia e moltiplica, si aggiunge questo fumetto – edito a Trieste da centoparole, disegni di Raimondo Pasin, sceneggiatura di Guendal – che non è una graphic novel del dramma, o del romanzo, di Dumas, ma proprio dell’opera di Verdi: si ammetterà che è un’operazione azzardata.
Forse si può dire che, almeno dal romanticismo, ogni opera nasce da una scommessa: passare dalla sua inquieta inesistenza alla Necessità. Ogni opera sogna di poter dire: prima non c’ero, nessuno sentiva la mia mancanza, adesso provate a fare a meno di me… Anche questo libro, che si presenta aggraziato, elegante e «semplice», sottintende una scommessa, che in questo caso, a me pare, rasenta la protervia: disegnare non il dramma, o il romanzo, di Dumas, che sarebbe un’operazione con una sua onesta tradizione (penso al grande Dino Battaglia), ma disegnare l’opera lirica, disegnare la musica. In questo caso, la scommessa si annuncia subito nella pagina che precede l’incipit, dove sono presentati i personaggi (Violetta Valéry, Alfredo Germont, il padre di Alfredo, ecc.) con la specificazione della voce: soprano, tenore, baritono… Pasin e Guendal, dunque, pretendono un lettore molto complice: quando vediamo e leggiamo le parole di Violetta, dobbiamo sentire un soprano, con Alfredo un tenore, con Germond un baritono…. Anche un lettore che non avesse mai ascoltato neppure un brano della Traviata deve sentire che qui siamo in un gioco musicale. È possibile?
Mi pare di riconoscere almeno due strategie: la prima è una sceneggiatura molto vicina al libretto di Francesco Maria Piave, in molti punti ripresentandone pari pari i versi. Leggendo Libiam nei lieti calici… Ah sì, da un anno…. Di quell’amore misterioso e altero… Croce e delizia… Amami Alfredo… ecc., ci facciamo risuonare dentro un linguaggio che più non si parla, che forse non si è mai davvero parlato, ma che si canta. Anche un lettore sordo riconoscerà in questa Traviata un linguaggio lirico, musicale, che non è del fumetto, diciamo, canonico.
Il secondo stratagemma mi pare sia l’uso di quel procedimento che le persone colte chiamano straniamento: Pasin e Guendal fanno vedere, ma solo in certi momenti di climax, che la storia di Violetta e di Alfredo è una messa in scena dell’opera di Verdi. In quei momenti, di colpo, l’azione e i personaggi sono incastonati tra sipari, luci, quinte, pubblico, direttore e orchestra: così è per l’inizio e la fine, per la dichiarazione d’amore di Alfredo, per l’Amami Alfredo di Violetta, per la scena terribile di Alfredo che paga Violetta.
Non so come sia nata questa scelta, ma le conseguenze non mi sembrano banali. Perché incorniciare i climax? Perché rompere di colpo la scelta dell’ambientazione naturalistica per ricordarci che stiamo assistendo a un’opera? Azzardo: incorniciando i momenti di più alta tensione, questi vengono allo stesso tempo enfatizzati e resi sopportabili dalla cornice stessa. In psicoanalisi, si direbbe che è stata messa in atto una simbolizzazione: non ci è stata restituita la realtà immediata e anche brutale di un amore assoluto, in certi momenti folle (pensiamo ovviamente ad Alfredo) e dall’inizio destinato alla morte, ma la sua rappresentazione. C’è del pudore in questa ostentazione: è un paradosso? Forse è il paradosso dell’arte.