Terroni al nord

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Storie di un’emigrazione che ha desertificato il Sud impoverendone il già povero tessuto

di Gabriella Ziani

«Le nostre vite (…) sono asimmetriche, non rispondono a un criterio logico, a una sequenza, a una attitudine o a un talento personale. Non si sa mai chi parte e quando parte, si conosce solo il perché. Il perché è un posto di lavoro». Per trovare quel posto di lavoro, o un posto comunque meglio pagato, dal dopoguerra a oggi ogni 10 minuti di ogni giorno un abitante della Sicilia si è trasferito nel Nord dell’Italia. Centinaia di migliaia di persone, interi paesi di cintura a Milano, Torino e Genova sono nati come enclave di immigrati. Prima risucchiati dalle grandi aziende lombarde e piemontesi e dall’edilizia in piena espansione ed esplosione (il 90% della manodopera era meridionale), poi con la crisi dell’industria da un lato  e la maggiore alfabetizzazione dall’altro “sparandosi” a caso dove li aveva destinati un concorso nella vasta, pletorica rete della pubblica amministrazione e del parastato. Alla emigrazione contadina aveva fatto seguito quella del piccolo ceto nei primi decenni del ’900, poi la fuga aveva cominciato a coinvolgere masse di diplomati, infine dei laureati: una ascesa culturale senza contropartita sociale ed economica, stabile invece l’unica “salita”, quella verso le regioni del Nord pronte a usare braccia e teste scansando con brutale odiosità le persone in quanto tali, i “terroni”.

Un esercito fatto da generazioni di “spaesati”, come intitola il suo bellissimo libro uno di loro, Enzo D’Antona, partito da Riesi in provincia di Caltanissetta per imboccare una strada nel giornalismo che l’ha condotto prima alla Sicilia, poi all’Ora di Palermo, quindi a Milano al prestigioso settimanale Il Mondo (dove, dice la biografia, si è occupato di intrecci tra affari, politica e criminalità organizzata), e di seguito a Repubblica, capo della redazione di Palermo, e caporedattore all’Ufficio centrale di Roma. Infine direttore nei giornali del gruppo Espresso, La città di Salerno e Il Piccolo di Trieste.

Dunque una «deportazione». Un «genocidio culturale senza fine», «un destino che incombeva su di noi». E che ha desertificato il Sud (e certo non solo la Sicilia), impoverendo il già povero tessuto, dove la famosa Cassa del Mezzogiorno (Casmez giornalisticamente stringendo) aveva prodotto risultati solo nella prima fase. Scrive D’Antona: «Fino al 1965, con una dotazione di cento miliardi di lire all’anno, in tutto il Sud si crearono 23 mila chilometri di acquedotti e 40 mila chilometri di reti elettriche, oltre a strade, scuole e ospedali». Poi la deriva, risorse sparse a pioggia e «la maggior parte dei profitti, certo con la complicità della pessima classe dirigente meridionale, andò a finire a imprenditori veri e finti del Nord». Gli impianti chimici di Termini Imerese, spiaggiati senza mai entrare in funzione, si conquistarono un’etichetta sprezzante: «La Comica del Mediterraneo», «Chimed, sei miliardi di ruggine».

è l’atto d’accusa che proviene da questo memoir durissimo nei temi sostanziali, ma assai affabile, simpatico, umano e malinconico nel fitto ritessere – anche con bonaria ironia se serve – vite, vicissitudini, sofferenze, fatiche e coraggio di tanti che, nel giro di ventiquattro ore (tanto durava un viaggio negli scassati e sovraffollati treni creati apposta per gli emigranti siciliani), si vedevano trasformati in «brutti, sporchi e cattivi», «ignoranti, violenti e portatori di malattie», e maltrattati, offesi, dileggiati, male alloggiati, sfruttati, spersi in una solitudine ghettizzante che D’Antona paragona a quella degli attuali migranti extracomunitari, gli ultimi di oggi, che hanno promosso i meridionali a penultimi, nel catino sempre ben riempito del bisogno e del razzismo. E a poco serviva la linguistica vendetta dei vari Fernando, Crocifisso detto Fifo (e anche “Mavalà” per via di una buffa esperienza sessantottina), Milziade, Liborio detto Borino, Gnazio, Artemio, Silvestro, Gianrosario, Domenico (favolosa la storia dei nomi, della loro origine e tradizione familiare, e dei soprannomi) di definire “polentoni” lombardi e piemontesi, oppure di indicare chiunque del Nord, da Bologna in su, come “il coglione di Bergamo”, senza offesa per Bergamo in quanto tale.

Il libro è la storia, viva e vivace oltre che naturalmente in sé drammatica, di un gruppo di giovani nati in un paese in provincia di Caltanissetta che D’Antona non chiama Riesi, ma camuffa – per mischiare un po’ le storie –  col nome di Judeca. E questa Judeca, via via che la gente parte, prima i padri e poi i figli, e a catena i cugini, altri parenti, altri amici, fidanzate che diventano mogli, assume, per la grazia del racconto, il profilo di un luogo quasi mitico. Questo gruppo di bambini, poi giovani e adulti di cui l’autore è uno, vivevano tutti nelle palazzine popolari dell’Unrra Casas  costruite dagli americani nel dopoguerra, dodici appartamenti per i dipendenti pubblici: «Su dodici famiglie almeno dieci avevano famigliari emigrati». Secondo il censimento del 1971 a Judeca risultavano 40 mila nati e 14 mila residenti. Il resto case vuote. Nel decennio 1961-’71 se ne andarono dalla Sicilia in 700 mila nota lo scrittore-giornalista: «Una devastazione economica, sociale e culturale».

Parte da lì questa che non è una autobiografia, ma una biografia collettiva narrata in prima persona, che nel pretendere una “narrazione” diversa e onesta non solo dei meridionali ma proprio dell’Italia malata e spezzata, stratifica molti discorsi, colmando un altro tassello delle tante storie di emigrazione di cui esistono un’eco e un’epica: i migranti in America, i migranti in Belgio morti nelle miniere di Marcinelle, i migranti accolti in Germania con progetti di rotazione, i migranti in Svizzera, i profughi istriani, gli emigrati in Australia, i veneti migranti dappertutto, i friulani in fuga dalla fame. C’è qui la denuncia di una condizione sociale, con lo spopolamento progressivo dei paesi siciliani, una desertificazione in cui la mafia ha amplificato i propri spazi, c’è il costante contrappunto dei principali eventi politici e di cronaca italiani (dai vari governi agli omicidi di mafia, dalla «marcia dei 40 mila» alla Fiat, al terrorismo, al rapimento e all’uccisione di Moro), e ci sono le canzoni del tempo che attraversano le vicende personali di una folla di judecani, definiti «api  operose» per come hanno saputo resistere, inventarsi e reinventarsi e anche riprodurre nelle loro periferie pezzi e profumi del paese d’origine.

Non si trova, in questa analisi-racconto, un anatema contro l’evidente incapacità del Sud di liberarsi dai cancri mafiosi, si parla come di un dato di fatto della malapratica delle raccomandazioni politiche per la conquista di un posto, e anche si giustifica il frequente «darsi ammalati» per guadagnare un giorno di riposo in più, con l’accusa allo Stato di aver sfruttato l’esodo meridionale senza avergli riconosciuto, in termini di conguaglio di qualche tipo, una indennità di disagio. Si leva invece alto e forte l’offeso risentimento verso «l’odio razzista» dei settentrionali, poi alimentato dalla Lega di Bossi, a partire dalla quale «chiunque lo volesse si è poi sentito in diritto di nutrire legittimamente sentimenti anti-meridionali e manifestarli apertamente. Come se noi e ciascuno di noi personalmente – scrive D’Antona -, fossimo l’origine di tutti i mali del Nord e dell’Italia intera». E ancora: «Noi meridionali che eravamo gli sfruttati all’improvviso siamo diventati gli sfruttatori, quelli che pretendono di  vivere alle spalle del Nord».

La «contro-antropologia», che già di per sé suppone che l’una parte d’Italia sia più che straniera all’altra, si incarna nelle singole vicende, alcune delle quali restano scolpite. C’è la storia di Fernando, il cui padre postino – che stranamente si chiama Laerte – decide per questo figlio un’istruzione pari a quella degli Agnelli, e dopo averlo mandato al convitto riservato ai postelegrafonici a Pesaro, lo spedisce da parenti a Torino per frequentare il prestigioso liceo D’Azeglio, dove il ragazzino subisce l’emarginazione più totale e bocciature conseguenti nonostante il disperatissimo studio, e così torna a Judeca, si laurea in seguito in Medicina, e per rivalsa tornerà a Torino e diventerà il dentista dei “vip” che dimorano nell’esclusivo quartiere di Crocetta, portandosi dietro schiere di fratelli e sistemandoli tutti.

E c’è la lunga avventura di Fifo, operaio alla Fiat che vive assieme allo zio Angioletto, ormai lì diventato caporeparto. Sfiorato ma fortunatamente non catturato dalle blandizie del brigatismo rosso, quando Romiti annuncerà licenziamenti e «cassa» per migliaia e il 14 ottobre 1980 si scatenerà la contromanifestazione pro-azienda dei «40 mila», sarà tra gli scioperanti, e incrocerà brutalmente lo zio nel corteo opposto, ma la frattura politica non incrinerà l’affetto che li lega. Perché poi è questo un altro degli ingredienti forti: i legami parentali stringono gli “spaesati” in una enorme famiglia allargata dove è sempre in funzione quella che D’Antona chiama «Radio mio cugino». Le voci corrono sul filo, e se c’è un bisogno il soccorso arriva di slancio.

Di questa generosità è un’icona il signor Gombo, riparatore di tv, «un eroe» agli occhi di D’Antona bambino e dei suoi amici. Aveva otto figli, e suo cognato il ragionier Garritano era arrivato a nove. Con la sua 600 il signor Gombo portava al mare (45 minuti di viaggio andare, altrettanti tornare) tutti i ventuno componenti delle due famiglie, caricandoli a turno assieme a ombrelloni e cibarie: «A fine giornata il signor Gombo aveva percorso quella strada dieci volte e aveva assicurato una domenica di vacanza alle due famiglie». Ma nessuno di quei ventuno è rimasto a vivere a Judeca, son partiti in massa un lunedì mattina dopo la giornata di mare. D’Antona ritroverà il signor Gombo quindici anni dopo a Cinisello Balsamo, tutta abitata da emigranti: vive in una stessa casa a più piani con la sua grande famiglia e con quella del cognato, allargate a nuore, generi e nipoti, quasi la riproduzione di un falansterio, dove ciascuno sa fare un mestiere e dà una mano gli altri, una cellula di «socialismo utopico» che si è ricreato a prescindere dalla bolgia esterna, dal divario Nord-Sud che non si è colmato e casomai è peggiorato, come ci intima di ricordare fino alla fine l’autore che, innestando saldamente il giornalismo d’inchiesta sul racconto narrativo, infila pure qualche perla di poesia, un tocco quasi felliniano. Quando saltuariamente uno degli spaesati, incontrando uno sconosciuto dall’aria ancora più spaesata, gli si avvicina chiedendo: «Sei sardo?». E quello invariabilmente risponde «no», magari con accento sardo.

 

 

 

Enzo D’Antona

Gli spaesati

Cronache del Nord terrone

Zolfo editore, Milano 2020

  1. 256, euro 17,00