Sulla soglia della Disneyland culturale
articolo 9 | Il Ponte rosso N° 36 | luglio-agosto 2018 | Nadia Danelon
L’epoca buia della storia dell’arte italiana
di Nadia Danelon
La definizione più comunemente associata all’Italia, in tutto il mondo, è quella che la identifica nel suo ruolo di “Bel Paese”: per la bellezza del suo paesaggio, per le sue tradizioni, per la sua storia millenaria e per il suo prestigioso patrimonio artistico. Opere tramandate attraverso i secoli, testimoni delle vicende storiche e culturali che hanno portato alla loro realizzazione. I nostri antenati, succubi come noi dei limiti inevitabili di ogni esistenza umana, parlano attraverso le immagini lasciateci in eredità per raccontarci gli usi e i costumi che hanno caratterizzato la loro esistenza. Non solo: si sono impegnati a tramandarci le opere di coloro che li hanno preceduti, permettendoci di ricostruire un quadro completo dell’Italia attraverso i secoli, lungo un percorso storico tortuoso e affascinante. Dobbiamo essere grati nei confronti di tanto altruismo, di una costante attenzione a fare in modo di lasciare delle tracce che possano contribuire a infondere una corretta identità culturale alle nuove generazioni, ovvero la consapevolezza di essere chiamate a custodire un patrimonio unico e prezioso. Ma soprattutto, è importante ricordare che il nostro compito più importante è quello di riuscire a tramandare queste testimonianze figurative ai nostri successori. Per farlo, bisogna essere in grado di saper interpretare, valutare e descrivere adeguatamente quanto abbiamo ereditato: questo è il compito degli esperti del settore, cioè degli storici dell’arte. Ma non si tratta di un incarico auto-conclusivo e legato solo al settore accademico: questi professionisti devono essere in grado di riuscire ad aprire gli occhi a tutti, esternare la loro preparazione per permettere a chiunque di poter apprezzare la nostra storia dell’arte, consapevoli che il patrimonio italiano non è la proprietà esclusiva di una ristretta cerchia di privilegiati. Tra i compiti dello storico dell’arte vi è quello di portare alla luce la propria competenza: attraverso i dibattiti, gli interventi, le pubblicazioni e molto altro. Per questo motivo, è necessario che la sua preparazione risulti adeguata: non c’è spazio per gli errori, poiché le analisi da lui affrontate sono finalizzate allo studio di un tesoro comune. Negli atenei di tutta Italia, i bravi professori cercano di trasmettere agli allievi quanto hanno appreso dai loro maestri: l’insieme dei mezzi, delle tecniche e dei metodi d’indagine utili a capire e a trattare l’immenso patrimonio dei musei, delle chiese, dei vari luoghi di cultura del nostro Paese.
Le osservazioni fatte finora dovrebbero suonare come implicite, assolutamente incontestabili: purtroppo non è sempre così, dato che le contraddizioni della nostra povera Italia emergono in molteplici forme sotto gli occhi sconcertati di coloro che si apprestano a tutelare la nostra cultura. Il Paese idilliaco getta una delle sue maschere per mostrarci degli episodi spiazzanti, talmente folli da farci sperare che non corrispondano al vero: a spiegarceli, a farci rendere conto che l’incubo del tramonto culturale sta diventando realtà, è la coraggiosa testimonianza di Tomaso Montanari, ordinario di Storia dell’arte all’Università di Napoli “Federico II”. Nel suo libro A cosa serve Michelangelo? (2011), lo studioso spiega l’intricato processo di strumentalizzazione della storia dell’arte, una vergognosa pagina nel resoconto dell’Italia contemporanea. Gli antagonisti sono molteplici, sistematicamente analizzati da Montanari attraverso la successione dei capitoli del suo libro: il potere, i media, l’università italiana, le mostre e (senza alcun dubbio) gli storici dell’arte. La colpa di quest’ultima categoria sta nel fatto di non essere costantemente impegnata a svolgere il proprio lavoro in modo coerente e rispettoso dei compiti impliciti legati a questo delicato mestiere: naturalmente, esistono anche storici dell’arte determinati a procedere nel loro lavoro con grande consapevolezza, senza alcun compromesso. Questi professionisti sono aperti a sviluppare dibattiti, a esprimere le proprie perplessità in modo pubblico e trasparente, a ricordare che il loro lavoro è fondamentale per la divulgazione di una conoscenza che deve essere accessibile a ogni possibile fruitore interessato alla storia dell’arte italiana. Ma, come in ogni ambiente, anche in questo settore sono presenti delle mele marce: arroganti e saccenti, oppure silenziose e accondiscendenti, pronte a difendere i propri interessi anche a spese della loro missione.
Montanari descrive questa complessa situazione, attraverso un’analisi trasparente e completa, servendosi di un esempio funzionale a illustrare la complessità di un sistema tanto diffuso quanto imbarazzante: l’acquisto da parte dello Stato (il ministro era Sandro Bondi) nel 2008, per la non modica cifra di 3.250.000 euro, di un Crocifisso ligneo di piccola dimensione, che una controversa ipotesi aveva attribuito alla mano del giovane Michelangelo, Il contratto d’acquisto, giudicato da Montanari perlomeno incauto, fu concluso senza che il Ministero per i beni e le attività culturali richiedesse a studiosi autorevoli e terzi rispetto ai proponenti l’acquisto e l’attribuzione stessa un parere vincolante riguardo all’autografia dell’opera. Nonostante i legittimi dubbi e l’apertura di un’inchiesta per danno erariale da parte della Corte dei Conti, il crocifisso è stato presentato in varie mostre in giro per l’Italia (anche a Trieste) senza che la presentazione al pubblico fosse ispirata a una minima cautela riguardo all’attribuzione.
A parere di Montanari, lo scopo principale dell’acquisto è appunto quello di entrare in possesso di un’opera destinata quasi esclusivamente al sistema delle mostre, secondo un progetto ben preciso che lo studioso commenta con acuta lucidità. Nel capitolo dedicato alle mostre, difatti, si legge: “Più comune è la vulgata buonista e autoassolutoria che indica nel sistema delle mostre un modo per avvicinare all’Arte le masse ignoranti. È questa la versione preferita da Cristina Acidini – l’altra responsabile dell’operazione Michelangelo, nonché erede di Paolucci a Firenze -, la quale considera un buon risultato far sì che ‘l’arte diventi divertente come una bistecca, o un’enoteca’ (Corriere Fiorentino, 10 aprile 2010). Una dichiarazione singolare, certo, ma scrupolosamente allineata alla dottrina di Mario Resca (all’epoca, a capo della Direzione generale della Valorizzazione), il quale ha chiarito in questi termini il proprio progetto: ‘L’Italia potrebbe diventare una grande Disneyland culturale’ (Sette – Corriere della Sera, 13 gennaio 2011). E qui il processo appare compiuto e irreversibile: da gratuito strumento di crescita culturale e morale garantito dalla Costituzione, il patrimonio storico e artistico diventa un parco di intrattenimento e divertimento a pagamento” (p. 92). Come ricordato, Montanari punta il dito anche verso molti suoi colleghi, incapaci di esprimere le loro perplessità in modo pubblico e trasparente, disposti a tutto pur di non urtare il fragile equilibrio dei loro legami con le istituzioni al fine di poter mantenere intatta la propria reputazione. In questo contesto tutt’altro che idilliaco emerge il ruolo determinante delle mostre, sempre più spesso basate su di un fattore commerciale che mira a strumentalizzare le opere esposte (anche a rischio della loro incolumità), piuttosto che sui progetti scientifici di valore educativo che dovrebbero insegnare al pubblico ad apprezzare la storia dell’arte cogliendo l’importanza e la complessità delle opere che ne fanno parte (si veda in proposito l’articolo Contro la business art, di Anna Calonico, sul Ponte rosso n. 34 del maggio di quest’anno).
La lettura di A cosa serve Michelangelo? dovrebbe essere suggerita ad ogni giovane storico dell’arte, appena uscito dal rifugio sicuro delle aule universitarie: una sorta di vademecum, un manuale d’istruzioni utile a capire la complessità e le contraddizioni della tutela del patrimonio culturale italiano. Tale consapevolezza andrebbe acquisita subito dopo la laurea, a mente fresca e obiettiva: prima di finire vittima di quell’intricato gioco di potere all’italiana, che finisce per influenzare la carriera di troppi professionisti del nostro settore. Avere il coraggio di denunciare i frutti delle incompetenze altrui che possono recare danno all’intera società, sviluppare dei dibattiti costruttivi, diffidare dalla promozione di competenze incomplete sviluppate attraverso metodologie sperimentali lontane dalla classica preparazione degli storici dell’arte delle generazioni precedenti (Montanari attribuisce le lacune nella formazione dei moderni professionisti del settore alle classi di laurea collegate alla categoria dei Beni Culturali). Quest’ultimo aspetto comporta una profonda riflessione, enfatizzata dal sincero parere dello studioso autore di questo libro-denuncia: faticosamente, al termine di un lungo processo, la storia dell’arte è riuscita ad entrare a pieno diritto tra le discipline umanistiche. Per molti decenni, inoltre, questa particolare specializzazione ha comportato la necessità di una laurea in Lettere con tesi in storia dell’arte: le generazioni di storici dell’arte laureati prima dell’introduzione del concetto di Beni Culturali attraverso i corsi di laurea moderni sono dotate di una preparazione assoluta, che abbraccia ogni settore degli studi umanistici. Allo stesso modo, un insieme di competenze molto simile fa parte (ad esempio) dei laureati in storia e archeologia appartenenti alle stesse generazioni.
Tutto ciò, nella consapevolezza di uno studente e poi di un laureato talentuoso nell’Italia contemporanea, non può che suscitare un desiderio di emulazione: in assenza di altri mezzi, è necessario scegliere con cura le discipline da inserire nella propria preparazione, al fine di raggiungere una padronanza completa del proprio settore di specializzazione. Solo in questo modo, si può essere in grado di svolgere adeguatamente il proprio compito. Analizzare un’opera d’arte significa riuscire a comprenderne l’origine, indagando ogni singolo aspetto della società in cui è stata elaborata. Solo in questo modo, infine, lo studioso può ritenersi in grado di esprimere la propria opinione educando all’arte qualsiasi persona che ne sia attratta. Tutte queste riflessioni fanno riferimento al libro di Montanari: pensato per essere letto da tutti, non solo dagli esperti del settore storico-artistico, al fine di comprendere la complessità e l’importanza della cultura nel nostro Paese. La storia dell’arte come mezzo d’istruzione, ma anche di completa sensibilizzazione nei confronti di un patrimonio millenario.
Copertina
Tomaso Montanari
A cosa serve Michelangelo?
Einaudi, Torino 2011
- 130, euro 12,00