Sul corpo delle donne
agosto 2016 | Il Ponte rosso N° 15 | Silva Bon | storia
Crimini contro la popolazione civile in Carnia
di Silva Bon
Le violenze sessuali durante l’occupazione cosacco-caucasica della Carnia nel periodo che intercorre tra l’autunno 1944 e la primavera 1945 sono state numerose, brutali, pur tuttavia sottaciute, sottostimate e rimosse. Infine, soprattutto, impunite.
La Carnia è stato l’unico territorio in Italia occupato da un gruppo di militari non tedeschi, che portavano con sé anche un certo seguito di popolazione civile, di carriaggi, di mandrie di cavalli: essi erano di provenienza cosacca, del Don, del Kuban, del Terek, dell’Ural, uniti assieme a caucasici, osseti e cabardini, a gruppi minoritari di georgiani, armeni, turkestani, polacchi e russi. Si tratta di contingenti che collaboravano con la Germania nazista nella seconda guerra mondiale, in seguito ad una scelta, che partiva da lontano, fin dalla lotta intrapresa dalle forze bianche contro la Rivoluzione bolscevica nel 1917, e confluiva nell’attacco contro l’Unione Sovietica, voluto da Hitler nel 1941. Questi collaboratori avevano seguito gli eserciti tedeschi dalla regione del Don, all’Ucraina, alla Polonia, prima di stanziarsi in Italia; i nazisti avevano loro promesso il territorio della Carnia, come luogo di ultimo insediamento. E qui i cosacchi la facevano da padroni, affiancandosi agli occupanti tedeschi nell’impegno precipuo di lotta contro i partigiani resistenti, ma lasciandosi andare a ogni forma di razzie, prevaricazioni, occupazioni di abitazioni, devastazioni dei campi. Le truppe cosacche-caucasiche si sposteranno infine in Austria, al momento della ritirata nazista, nel maggio 1945, e qui verranno consegnati ai russi dai vincitori inglesi.
Fabio Verardo, autore di saggi e monografie sull’occupazione cosacco-caucasica del Friuli, nella sua ultima ricerca “Offesa all’onore della donna”, edita dall’Istituto Regionale per la Storia del Movimento di Liberazione nel Friuli Venezia Giulia, indaga con metodologie scientifiche un campo a mio giudizio sfuggente e inafferrabile: appunto quello dell’uso degli stupri su donne e giovani maschi, messo in atto come strumento ulteriore di prevaricazione, di umiliazione, di annichilimento durante la seconda guerra mondiale.
La guerra totale, scatenata dalle forze naziste e dai loro collaboratori contro le “bande partigiane” nei territori occupati, ha stravolto completamente anche la vita della popolazione civile, oltre che dei combattenti dichiarati, portando a razzie e abusi indiscriminati, solo in minima parte, timidamente denunciati, così contro le cose come, soprattutto, contro le persone.
Questo è successo ed è stato documentato anche nella nostra regione: una comunità coesa, quella carnica, disseminata in tanti paesi, piccoli centri e villaggi intorno a Tolmezzo; forte di tradizioni antiche a volte ancora arcaiche; difesa da valori sociali e religiosi rinchiusi nel microcosmo familiare e attorno al campanile; ha subito forme di violenza e di rapina perpetrate nelle loro stesse case, davanti alle quali era esposta appunto la fascia più debole della società, quella delle donne e dei giovani, ragazzi e ragazze, e ancora delle bambine.
L’Autore di questa delicata ricerca raccoglie, anche da archivi inediti, dati e documenti importanti, inoppugnabili: come lo sono le eloquenti ed esplicite cartelle cliniche dell’Ospedale Sant’Antonio Abate di Tolmezzo; e ancora interviste a testimoni maschili; voci indirette desunte dalla corrispondenza censurata; notizie allusive, ma sempre riconducibili ai delitti a sfondo sessuale, tratte dalle relazioni molto castigate dei parroci alla Curia Arcivescovile di Udine. Il quadro che lui compone è quello vasto e agghiacciante dell’orrore e delle torture sessuali praticate in tempi più stretti e con dinamiche seriali nel corso dell’operazione di rastrellamento contro i resistenti partigiani denominata “Waldläufer”, nell’ottobre 1944, e poi più estesamente nel tempo, nel corso di tutto il periodo di occupazione, dall’agosto 1944 al maggio 1945.
Fabio Verardo conclude con una stima di duecentocinquanta stupri documentati. Ma certamente gli abusi sono stati molti di più.
E allora lui si pone alla ricerca del perché le vittime non hanno parlato; del perché gli aguzzini hanno agito così: domande centrali, drammatiche, che esigono risposte ragionate, modulate, ma comunque interlocutorie.
Come donna, tendo a privilegiare la questione del silenzio delle donne. Nell’orrore dello stupro vedo agire una totalizzante violenza bestiale e una totalizzante furia fisica e psichica che danno sofferenza; come un’ondata sommergono e annichiliscono, non hanno spiegazioni razionali, né tanto meno logiche; e così producono un totalizzante dolore materiale e una reazione psichica che durano per sempre, incancellabili. Eppure la stessa prevaricazione, l’oggettivazione subite riescono a spiegare, o perlomeno a far cogliere, così il senso di vergogna, addirittura il senso di colpa, come la rimozione, la ricerca dell’oblio, che ne conseguono: sono altrettante voci che per un verso rinnovano continuamente la violazione, la tortura subite; per un altro pongono la ricerca di una possibile difesa, perché bisogna continuare a vivere. Ma molte donne stuprate hanno pensato anche al suicidio.
È una sfera delicatissima, questa della vita intima di donne e giovani indifesi, che va protetta strenuamente anche davanti ai vissuti di tutta una comunità, sia quella familiare, patriarcale, sociale allargata, sia davanti alla propria stessa memoria e all’integrità del proprio corpo: parlare è difficilissimo, a volte impossibile. Solo dopo aver raggiunto un livello di consapevolezza e di rielaborazione maturi, in spazi protetti, si può arrivare a denunciare la verità. Com’è giusto.
Nel 1944-1945 la mentalità delle genti della Carnia era costruita su valori così tradizionali e conservatori, intesi nell’accezione positiva dei termini, che chi subiva violenza sessuale certamente non ne parlava, perché non poteva parlarne: le questioni sessuali erano generalmente un tabù, la denuncia un boomerang che si ritorceva contro le vittime e tutta la società intorno ad esse. Per capire queste difficoltà esistenziali dobbiamo cercare di uscire dal modo di pensare attuale, per storicizzare e contestualizzare pienamente il senso dell’offesa portata contro l’onore delle donne, così com’era vissuto più di settant’anni fa.
Questo ci riporta anche al clima di terrore diffuso durante l’occupazione cosacca, che si estende, comprende in sé, il terrore, la paura nei confronti dell’aggressore, dell’uomo, degli uomini, che ubriachi, in preda a turbe psichiche, prevaricano in nome di un potere che non è solo fisico, non è solo l’esercizio di forza e di tracotanza del maschio sul più debole corpo femminile. I cosacchi vogliono cancellare, annientare il nemico, anche umiliandolo, usando il corpo delle donne come luogo simbolico in cui, una volta di più, essi compiono un atto di guerra, di esaltazione della propria potenza, del proprio potere assoluto, brutale. In Carnia, durante la guerra, la gente rimasta nelle case, nei paesi, le donne soprattutto, erano alla mercé di un nemico oppressore, che esprimeva tutta la determinazione estrema, in una lucida simbiosi mortale di collaborazione con le forze naziste, anche attraverso atti di illegalità e inumanità totali.
La paura del resto vale ancora oggi, come freno che inibisce il coraggio della denuncia. E va detto a chiare lettere che le violenze, sessuali e non, lo stupro e gli abusi sui più deboli, non solo donne, sono un problema degli uomini.