Solo per ringraziare
Giancarlo Pauletto | Il POnte rosso N° 72 | la memoria | settembre 2021
La bella vita del critico d’arte
di Giancarlo Pauletto
Luigi Veronesi – gran maestro dell’astrattismo italiano, straordinario creatore di musicali armonie a partire dal cerchio e dalla retta – stava sfogliando attentamente il catalogo della sua seconda mostra presso la Galleria Sagittaria di Pordenone, nel marzo del 1984.
Presentava alcune ultime pitture, una serie di calibratissime xilografie, varie composizioni ad acquarello, alcuni bozzetti di scenografia per la Scala di Milano, Gymnopedie n. 2 di Stravinskj, Das Klagende Lied di Mahler e altro.
Temevo il suo giudizio, perché non tutte le riproduzioni erano riuscite col giusto equilibrio cromatico.
Avevo anzi cercato di parare un po’ le sue critiche, accennando alla buona volontà – come quando a scuola, appunto, si chiede di premiare “la buona volontà” -: ma il suo viso, largo e severo, piantato su una corporatura bassa e compatta, pareva piuttosto pronto a qualche corrucciata recriminazione.
E invece: «Ma di che si preoccupa! Va benissimo! Altrove, anche in posti più importanti, si fa di molto peggio!»
Un gran signore, oltre che un grande artista, e lasciò in dono alla galleria due quadri, acquarelli, incisioni e una serie di belle serigrafie.
Qualcosa di analogo accadde con Plinio Mesciulam.
L’artista genovese fu invitato – nel 1989 – per una personale, dopo aver partecipato, assieme ad altri pittori di diverse regioni italiane, alla mostra Omaggio al Pordenone curata da Franco Solmi, allora direttore della Galleria d’Arte Moderna di Bologna, e poi a La soglia, importante rassegna di tendenza curata, nel 1986, da Filiberto Menna.
Al Mesciulam, pittore di formidabile sapienza tecnica e di grande concentrazione mentale, pittore filosofo, insomma e del resto a un filosofo e mistico, il tedesco Jacob Böhme, erano ispirati alcuni suoi grandi lavori; a questo artista-intellettuale io stampai un Crocifisso – nella realtà alto tre metri – a rovescio.
Era, per fortuna, un’opera fatta con tavole di legno sovrapposte e dipinte, sviluppata, alla base, anche un po’ in orizzontale, non puramente in verticale.
Lui sfogliò, guardò – un uomo robusto, calvo, con due bei baffi, allora a metà dei suoi sessant’anni – e disse, più o meno: «Ma no, non è un problema, va quasi meglio così».
Poi mi dedicò un catalogo firmandolo “allo specchio”, come faceva Leonardo Da Vinci.
Come si fa a non amare persone del genere?
Artisti noti e bravissimi, presenti in tutte le storie della nostra arte contemporanea, che si rendono conto delle difficoltà in cui spesso i critici di provincia si trovano a lavorare, tempi stretti e competenze, anche personali, non sempre adeguate.
è per questo che sto scrivendo queste righe, per rendere grazie in qualche modo a persone che mi hanno dato molto, che hanno mostrato di apprezzare un lavoro condotto, appunto, col massimo della buona volontà.
Naturalmente, non ho avuto solo esperienze di questo tipo.
Talvolta c’è stato un sussiego anche troppo accentuato, talaltra lamentele anche parzialmente giustificate ma eccessive, e il più delle volte da parte di qualche artista giovane, poco disposto a riconoscere limiti, propri e altrui.
Ma magari, invecchiando, sarà diventato più tranquillo, oltre che più bravo, qualità che del resto già gli conoscevamo, se era stato invitato per una mostra.
Di questi aspetti, tuttavia, non mi interessa parlare.
Avevo recensito, nel gennaio del 1974, una mostra di Bruno Chersicla alla Galleria Plurima di Portogruaro.
Presentava i suoi Baroki, fantasiose “macchine mobili” in bilico tra spunto di realtà e levitante immaginazione, oggetti che mi avevano molto incuriosito, più da maneggiare – cioè da vivere – che da contemplare.
Poi avevo sempre seguito, per quanto possibile, il suo lavoro, finché si presentò l’ottima occasione del Museo Revoltella, che nel 1997 gli dedicò un’ampia rassegna.
Si entrava in una specie di grande parco culturale, una sorta – come scrissi – di personale «ambulacro degli eroi». Che sono Svevo e Joyce, Pasolini e Saba, Mirò e Miles Davis, Depero e Carlo Scarpa, ma anche il fantastico Balla e il suo cane, a piena figura, e poi Hemingway, Klee, Kafka e molti altri, e tutti sagomati nel legno, «un materiale gentile, confidenziale, affabile, attraverso il quale è possibile la difesa rappresentata dal sorriso, dall’ironia, dalla souplesse che, non ignara del tragico, coscientemente lo allontana dal proprio orizzonte».
Ne scrissi, insomma, non lesinando l’apprezzamento per un’arte che, fondata su una serie di miti culturali, di essi faceva un mondo concreto e visibile, una vera compagnia, certamente una difesa contro il dubbio – così presente dopo la nicciana “morte di dio” – sulla totale insignificanza del mondo.
Un paio di mesi dopo la pubblicazione di questa recensione, apparsa come moltissime altre sul periodico del Centro Iniziative Culturali Pordenone Il Momento, mi vedo arrivare a casa un pacco, mittente Bruno Chersicla, Zoccorino, Milano.
Dentro c’era un tampone color verde rosso e legno, un tampone come quelli che una volta – quando la scrittura era una cosa seria, e si otteneva con la penna – servivano appunto ad asciugare l’inchiostro appena vergato sulla carta.
Largo ventisei centimetri, alto diciotto e profondo nove, non era tuttavia fermo, si snodava – come tutti un po’ gli oggetti tridimensionali creati da Chersicla – attraverso perni di ottone perfettamente inseriti nel progetto, e tali da permettere almeno una ventina di configurazioni significative: cosa che molto mi divertì allora e ancora mi diverte, un giocattolo amato anche da mio nipote, che ha cominciato a maneggiarlo verso i cinque anni – adesso ne ha dieci.
Parecchio tempo dopo – nell’aprile del 2008 – riuscimmo ad organizzare presso la Sagittaria una personale, bellissima fin dal titolo, da Chersicla suggerito: La città promessa.
Personaggi, oggetti e una serie di splendidi disegni identificavano la città come il luogo per eccellenza della creatività, esprimevano la tensione ad una utopia indispensabile a sostenere la speranza.
E intanto ero diventato uno dei fortunati destinatari delle sue “cartoline di viaggio”, spedite dai più vari luoghi della terra.
Bruno Chersicla, alto, un po’ curvo io credo per le lunghe ore passate al tavolo di progettazione, con un po’ di barba e gli occhi miopi dietro gli occhialini: un artista profondamente triestino, nonostante i tanti anni passati a Milano.
Trieste è una città che segna i suoi artisti, da Svevo a Saba, da Giotti a Bolaffio, da Mascherini a Chersicla: o no?
Ma come cominciò, questa pacchia?
Come mai un tizio qualunque, nato a Portogruaro – dunque non in una città importante – nel 1941, da una famiglia di piccolissima borghesia – mio padre era un impiegato, non un operaio né un contadino, e ciò significava comunque qualcosa, anche se certo non esimeva dalle ristrettezze, specie in quel tempo di guerra -; come mai questo tizio ha finito per, diciamo così, annegare nella cosiddetta “critica d’arte”?
Qui bisogna tirare in ballo una maestra che insistette molto con la madre perché il ragazzo – ultimo della famiglia – continuasse almeno lui a studiare, e non alle scuole complementari, ma alle medie.
Poi un padre che trovò una maestra disposta a dargli lezione perché potesse affrontare gli esami di ammissione alla suddetta scuola media: in cambio di non so quale compenso, forse un paio di galline – a quei tempi si usava, e nel nostro cortile esse razzolavano abbastanza numerose -; o forse neppure quelle.
E quindi la scuola media.
Durante la quale il suo fratello maggiore – aveva diciassette anni più di lui, dunque trent’anni quando il ragazzo affrontò gli esami di terza – si era messo con insistenza a dipingere, memore di quando, alla sua scuola d’avviamento, gli esponevano i disegni sui muri dell’aula.
Disegnare gli era sempre piaciuto, e dopo una grande passione per il teatro – che lo aveva visto attore goldoniano e quasi assunto nella compagnia di Cesco Baseggio, non fossero stati i pianti della madre, che “perdeva il figlio” – aveva impugnato con decisione questo ulteriore modo di esprimere la sua creatività, e continuò poi ad esercitarlo per tutta la vita: con risultati, se posso dirlo, assolutamente onorevoli.
Verso la metà degli anni cinquanta questo fratello cominciò ad acquistare i libriccini Mondadori sugli Impressionisti, Renoir, Pissarro, Manet, Monet e gli altri, piccoli libri che costavano duecentocinquanta lire, e inoltre si era provveduto di larghi repertori di pittura, paesaggi di montagna e di mare, nature morte, qualche ritratto, interni etc.: tutto questo divenne un grande pascolo per me, che leggevo di tutto e mi piaceva in particolare sapere degli artisti e della loro vita.
Oltre a ciò, in quegli stessi anni un assessore particolarmente illuminato aveva aperto, presso i molini duecenteschi di Portogruaro – collocati proprio nel cuore della città, al centro del fiume Lemene – una Galleria Comunale d’Arte che, con alterne vicende e sospensioni, è ancora tuttavia funzionante.
Si aprì una stagione formidabile, per quegli spazi passarono, nel giro di non molti anni, i più bravi artisti veneti e friulani, da Zigaina a Zancanaro, da Anzil a Tramontin, da Celiberti a Ciussi, da Magnolato a Marangoni, da Perizi a Semeghini, da Barbaro a Barbisan a Novati e molti, molti altri, mentre attraverso mostre collettive arrivavano anche opere di De Pisis, Carena, Guttuso, Saetti, Guidi, Afro, Vedova e via e via.
Venivano organizzate, negli stessi anni, le extempore di pittura, e anche importanti rassegne di incisione, con la presenza dei più bei nomi del settore, italiani ed europei.
Insomma, per un ragazzo che volesse imparare a guardare non mancavano certo le occasioni, tanto più se questo ragazzo aveva in casa un fratello maggiore molto preso dalla stessa passione, lui però anche dipingendoli, i quadri.
Poco dopo il sessanta egli ebbe l’opportunità di allestire una personale proprio ai “Molini” e, non sapendo a chi rivolgersi, chiese al fratello minore di scrivergli qualcosa a mo’ di presentazione. Senza firma, si capisce.
A rileggerla oggi – un amico, dopo moltissimi anni, me ne ha spedita una fotocopia dal suo archivio – non è neanche tanto male. Banale, ovviamente, con i soliti rimandi al fatto di “non seguire le mode” etc., ma corretta in alcuni riferimenti essenziali al lirismo espressionista, che ha sempre caratterizzato la pittura di mio fratello e scritta, dopotutto, in un italiano piuttosto corretto.
Scrissi anche per qualche altro volenteroso e impegnato amico, in quegli anni, e così cominciai a passare come uno che “scriveva d’arte” – frequentavo l’università di Padova, a Filosofia.
- Continua
Bruno Chersicla
RDM di Giancarlo Pauletto
pastelli e grafite, 2008
Coll. privata