SLATAPER TRA IRREDENTISMO E NAZIONALISMO Evoluzione e continuità nel pensiero politico slataperiano
Speciale Scipio Slataper
Tutta la vita di Slataper fu sostenuta da una costante esigenza di comprensione ed espressione umana. Egli credeva necessaria un’azione concreta di cui potesse beneficiare una più larga comunità di uomini, variamente identificata nel tempo. Da quest’esigenza muove tutta la produzione del nostro autore, dagli scritti per i bambini a quelli per la Voce, dai volumi destinati al pubblico alle più intime lettere agli amici e alle amiche.
Slataper si trova però inizialmente incerto sul campo più appropriato per esprimere questa vocazione. Nei primi anni lo individua nella letteratura, successivamente crederà di trovarlo nella storia. In questo senso «si capisce come lo Slataper potesse dire qualche volta d’essere incerto tra la poesia e la storia, di sentire alle volte, scrivendo poesia, come il suo compito fosse la storia e altre volte, scrivendo storia, fosse la poesia» (G. Stuparich, Scipio Slataper, Milano 1950, p. 272).
Partendo da queste brevi considerazioni, a patto di essere consapevoli dei limiti che comportano tutte le schematizzazioni, è possibile provare a distinguere alcune fasi nella produzione scritta e nel pensiero slataperiani.
Il primo momento è quello in cui a prevalere sono gli interessi letterari. È questa l’epoca in cui Slataper si dedica alla stesura di numerose novelle, delle fiabe pubblicate su varie riviste, di diversi scritti teatrali (la maggior parte rimasti allo stato di abbozzo). È l’epoca in cui egli crede di poter far un’opera di educazione e di edificazione umana attraverso la propria produzione letteraria. È l’epoca della fiducia nel mezzo espressivo letterario e del tentativo di piegarlo al proprio progetto, nonostante già qui si comincino a sentire i primi scricchiolii che mineranno le sue certezze.
Ciò, ovviamente, non significa che in questo periodo manchi una produzione più direttamente ascrivibile al versante politico, che anzi è sempre presente e proprio a questa altezza temporale comincia ad ottenere i primi importanti riconoscimenti (sia favorevoli che contrari). Vuol dire invece che dominante nei suoi interessi sono la ricerca della “poesia” e l’autorappresentazione che Slataper da di sé come poeta.
I primi segni di interesse verso tematiche politiche sono riconoscibili già in alcuni articoli e scritti precedenti al trasferimento a Firenze, in genere improntati ad una istintiva adesione al socialismo. Giunto nel capoluogo toscano, queste tematiche cominciano ad essere svolte con più profondità. È del 1908 un primo consapevole accenno all’irredentismo visto come l’imposizione dei propri diritti nazionali da parte del popolo italiano finalmente unito all’Europa. L’anno successivo Slataper conosce il suo vero esordio come scrittore con la pubblicazione sulla Vocedella serie delle Lettere triestine, scritte con l’intento di indagare a fondo la situazione culturale della propria città. Si tratta di scritti polemici che vogliono colpire nel vivo, ma che rivelano già un giovane capace di compiere delle analisi acute e approfondite, che vogliono fondare un programma di vita per Trieste. La situazione è tragica. Qui vivono due «nature che cozzano ad annullarsi a vicenda». La città di tradizioni e sentimenti italiani contemporaneamente «sente l’importanza del tedesco e deve combatterlo; s’impaura per le banche slave e ne diviene cliente» (S. Slataper, Scritti politici, Milano 1954, p. 45). Cosa fare dunque? La prima cosa è riconoscere la realtà dei fatti che l’élite liberal-nazionale che governa Trieste si rifiuta di vedere: gli slavi esistono e solo un’efficace «resistenza intellettuale» è in grado di «ottundere la gran virtù penetrativa, entusiastica» (Ivi, p. 11). Ma la vita intellettuale ristagna perché Trieste non ha tradizioni di coltura. Slataper passa quindi a trattare dei mezzi con cui questa cultura dovrebbe sorgere, le istituzioni pubbliche, i giornali, le biblioteche, mostrando la loro attuale inadeguatezza affinché ci si renda conto della necessità di cominciare un’imponente opera di preparazione.
Importante per capire questi testi è lo scrittoLettere triestine: perché le scrivo (in La città, n. 6, 1964, pp. 58-64), in cui Slataper spiega i motivi che lo hanno spinto a dedicarsi a questa serie di articoli. Egli si oppone all’irredentismo triestino perché esso non ha modo di tradursi in pratica, ma si limita a vane parole che fanno perdere di vista la realtà. Ci vuole qualcosa di nuovo: la difesa dell’italianità di Trieste – mai messa in dubbio – si può ottenere solo attraverso un’opera di rifondazione culturale che passi attraverso il riconoscimento della verità della situazione contingente.
Le stesse posizioni sono alla base dei due numeri monografici della Voce dedicati all’irredentismo, pubblicati alla fine del 1910. Nel primo numero il nostro autore si dedica alla ricostruzione degli eventi che hanno portato all’attuale situazione del confine orientale. Passa poi ad analizzare l’irredentismo che viene descritto come uno «stato d’animo […] che il popolo non potendo avere coscienza di sé e migliorarsi altro che con l’azione, riflette davanti a sé, come poesia tangibile, dal proprio passato guerresco» (Slataper, Scritti politici, cit., p. 61). Si tratta dunque di un sentimento popolare attorno al quale si aggrega una comunità che grazie a ciò ha la possibilità di agire nazionalmente. Legato a questo è un articolo dell’estate 1910 rimasto inedito, Elementi eroici per l’azione nazionale, nel quale Slataper si interroga sul problema del rapporto tra la massa e il singolo. Il «popolo è l’integramento dell’individuo» attorno a cui si coagula, «non massa amorfa che deve essere plasmata» ma «forza istintiva, al contatto con la terra, radice, rinsangua perennemente l’individuo della profonda necessità naturale» (si cita dall’autografo conservato presso il Centro Manoscritti dell’Università di Pavia). Come si vede si tratta di un rapporto quasi simbiotico. Senza la comunità umana il singolo rimane privo di forza, ma se manca l’individuo essa resta senza una direzione definita. Questi termini possono essere ricondotti al discorso sull’irredentismo quando Slataper tratta della figura di Oberdan(k), nella quale si identifica e rispecchia. Il “martire” triestino viene esaltato perché è stato, appunto, colui intorno al quale si è coagulato il sentimento di una collettività, ma per far in modo che tutto ciò non resti sterile è necessario ora farlo agire concretamente. Questo è quanto Slataper si propone di fare con la sua opera.
Nel secondo numero egli fonda il proprio irredentismo definito «colturale», diverso da quelli imperanti nella Trieste dell’epoca. Dichiara: «Noi non neghiamo l’importanza dei confini politici; ma sentiamo fermamente che non contengono la patria. L’affetto di patria è il ritrovarsi storico d’ogni attività individuale in una tradizione consentanea ai suoi bisogni e desideri; è la forma speciale e il compiacimento in cui i valori contemporanei s’infuturano» (Slataper, Scritti politici, cit., p. 103). Slataper sostiene che bisogna agire ad un livello più profondo di quello su cui si attestano i liberal-nazionali triestini. Bisogna fare un’opera di cultura, conforme alla storia e alle tradizioni del popolo italiano, solo così sarà possibile conservare l’identità del capoluogo giuliano. In tale visione un’importanza fondamentale assume la fondazione di un’università italiana a Trieste.
Questa prima fase dura fino all’inizio del 1912, quando viene concluso Ilmio Carso, ultimo grande tentativo letterario e insieme riconoscimento dell’insufficienza e dell’inadeguatezza di tale via. Slataper comincia a sentire maggiormente le difficoltà dell’espressione, sente che il tentativo di giungere alla «parola che supera la parola, che l’annienta, che dà le cose direttamente» (S. Slataper, Alle tre amiche, Milano 1958, p. 39) si fa impossibile e sente il bisogno di puntare in altre direzioni. Preferisce ricercare un atto più concreto in linea con quel programma di vita basato sull’«amare e lavorare» posto a suggello del poema carsico.
Il secondo momento in cui è possibile dividere la produzione slataperiana va dall’inizio del 1912 all’inizio del 1914. In questi anni, agli occhi di Slataper, la letteratura, pur conservando una sua importanza, comincia a perdere terreno a favore della storia. È il periodo in cui si dedica ad Ibsen, alla stesura della tesi di laurea e alla successiva rielaborazione di quest’ultima per ricavarne il suo saggio sul drammaturgo norvegese.
In questo periodo Slataper scrive per la Voce alcuni articoli tra cui spunta per importanza e complessità L’avvenire nazionale e politico di Trieste. L’argomento principale è quello dei rapporti tra italiani e slavi. Su tale tema egli prende le distanze dalle posizioni dei socialisti che riconoscono solo il primato dell’elemento economico e negano l’importanza dell’elemento nazionale. Slataper è convinto che «il conflitto fra le nazioni è naturale e buono» e che «nelle nazioni come negli individui non bisogna comprendere e accettare, ma comprendere e giudicare» perché «non tutti hanno gli stessi diritti» e «per ottenerli bisogna sentirne il bisogno, cioè volere e combattere. […] Noi combattiamo per la nostra coltura prima di tutto perché è nostra» (Slataper, Scritti politici, cit., pp. 151-53). D’altra parte Slataper prende le distanze anche dall’imperialismo, visto come «l’illusione moderna» (Ivi, p. 157), e accusa i suoi seguaci di incoerenza e incapacità d’azione. Essi vorrebbero essere barbari e invece sono cittadini. L’unica cosa che sono capaci di fare è limitare i mezzi di vita intellettuale agli slavi, impauriti dalla cultura di quest’ultimi perché insicuri della propria. La posizione che assumono è di passiva difesa anziché, come dovrebbe, protesa ad accrescere la loro civiltà nazionale. In questo senso egli dichiara polemicamente «Io non sono […] irredentista» (Ivi, p. 167). Gli italiani di Trieste, secondo Slataper, dovrebbero invece dare scuole slovene agli sloveni e confrontarsi con loro sul piano culturale. Solo così sarebbero immersi di nuovo nella vita nazionale che ora stagna e sarebbero costretti a misurarsi davvero con qualcuno e dunque a migliorarsi finalmente se non vogliono sparire. Dunque, come riconosciuto già in precedenza, il vero terreno dello scontro è quello della cultura: «Io non dico che noi non dobbiamo pensare alla difesa. Dico che chi non fa che difendersi, si difende male. Nella volontà di coltura, nella migliore coltura, è compresa anche la migliore difesa. Ma senza questa volontà, la lotta nazionale diventa una forma di elargitiva beneficenza» (Ivi, p. 161). Questa è l’unica via di sopravvivenza, anche perché l’Italia deve rimanere saldamente nella triplice alleanza per poter condurre efficacemente la propria politica estera e dunque, almeno per il momento, porre la questione su un piano diverso da quello prospettato da Slataper significa non aver compreso la situazione.
Dall’inizio del 1914 alla morte, come ci testimoniano molte lettere del periodo, a prevalere sono esclusivamente gli interessi legati alla storia. Tale elemento, agli occhi del nostro autore, ora tende ad accogliere in sé ogni manifestazione umana. È nell’opera su Ibsen che vanno cercate le motivazioni profonde del cambio di rotta slataperiano, che poi lo porteranno a sostenere l’intervento italiano e al successivo impegno al fronte. Nulla di tutto ciò è già presente nel saggio, ma ad un occhio attento sono riconoscibili chiaramente i germi che lo porteranno a quelle posizioni. In quest’opera infatti Slataper giunge alla visione di una «letteratura scontenta di essere solo letteratura. […] Per cui il superamento sofferto di Ibsen, del suo mondo spirituale e artistico […] non poteva che portare, fino a coincidervi in assoluto, al silenzio della letteratura» (S. Campailla, L’agnizione tragica, Bologna 1976, p. 168) e, aggiungiamo noi, al rifugio nell’azione che si compie nella storia.
Così dichiara infatti Slataper in una lettera del gennaio 1914: «Tu sai già del mio interessamento per la storia. Mi par di trovare in essa la forma della mia varia sete. E l’intendo con maggior ampiezza, con più umanità che al solito non si faccia. Mi pare che sopratutto ciò che gli storici disprezzano come “non vero” (leggende ecc.) abbia un’importanza decisiva» (S. Slataper, Espistolario, Milano 1950, pp. 334-35). Dunque si tratta di una storia intesa nel senso più ampio possibile. Per il nostro autore tutto ritorna alla storia e finalmente converge in essa. È qui che si manifesta l’azione delle comunità umane divise nei vari gruppi nazionali, unico mezzo che permette loro di agire concretamente.
Davanti allo scoppiare della guerra, tutto ciò lo porta ad aderire a posizioni direttamente interventiste perché ora le condizioni storiche sono cambiate. Il riconoscimento di questo fatto lo obbliga a modificare parzialmente le idee espresse precedentemente. Egli adesso si propone di spingere l’Italia a prepararsi moralmente al conflitto e a rendersi conto della necessità di esso perché solo così è possibile partecipare al grande scorrere della storia: «l’Italia deve intervenire» altrimenti «per mezzo secolo almeno […] non conterebbe più nella storia europea» (Ivi, p. 301). Ora gli interessi italiani nell’Adriatico sono infatti minacciati dalla possibilità di affermazione di una nazione croata, sotto l’egida austriaca, resa possibile dalle tendenze trialiste che si agitavano in seno all’impero asburgico, in particolare dopo le guerre balcaniche che avevano comportato un riavvicinamento tra sloveni e croati. A differenza di prima ora il Regno ha dunque tutto l’interesse di intervenire contro l’Austria per tutelare la propria posizione.
Queste idee trovano diretta espressione negli articoli che Slataper scrive per Il Resto del Carlino. Si tratta di alcuni testi con cui Slataper si propone di incidere direttamente sulla realtà. Egli analizza singoli fatti o episodi della guerra con spirito caustico per dimostrare la necessità dell’intervento e soprattutto della preparazione ad esso. È qui che Slataper giunge a sostenere che I diritti nazionali si affermano con la guerra. Ci troviamo di fronte alla negazione delle posizioni mazziniane sostenute nella gioventù a favore del riconoscimento delle necessità storiche che portano per forza l’Italia a cercare d’assicurarsi una buona posizione nell’Adriatico anche a scapito delle popolazioni slave presenti sul territorio.
Questa posizione ha fatto ritenere a diversi studiosi di poter assimilare sostanzialmente le idee di Slataper a quelle dei nazionalisti. In realtà Slataper cerca di prendere le distanze da questi ultimi sostenendo che «non sarà una guerra né sentimentale né imperialistica […]: sarà una guerra per difenderci» (Slataper, Scritti politici, cit., p. 282). Anche nell’opuscolo I confini orientali, pubblicato nel 1915, il nostro autore si muove in quest’ottica. Qui discute del trattamento da riservare ai nuovi sudditi slavi che si sarebbero trovati entro i confini del Regno se le sorti della guerra avessero arriso, come da lui auspicato, all’Italia. Egli sostiene: «La volontà di snazionalizzazione è tanto bestiale e assurda». Bisogna invece agire «italianamente. Aver fede in noi e nella nostra capacità civile. […] Rispettare profondamente la loro nazione […]. Lasciare intatte le scuole nazionali» limitandosi a «impedire […] ogni moto politico» (Ivi, pp. 349-50) e facendo valere la propria superiorità intellettuale. Ancora una volta, come si vede, il terreno su cui misurarsi quello culturale.
Con l’intervento dell’Italia, Slataper sente però, coerentemente con le posizioni sostenute fino a questo momento, l’esigenza di contribuire direttamente all’azione del gruppo nazionale di cui fa parte e non manca di arruolarsi immediatamente. Il 3 dicembre 1915 durante un’azione sul monte Calvario viene colpito alla gola e muore concludendo tragicamente quella che resta una delle parabole intellettuali più interessanti e peculiari di questo momento storico.
di Lorenzo Tommasini