Se Pinocchio muore

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Un classico della nostra letteratura nella sua prima versione, nella quale accadono quasi solo cose criminali, notturne, folli e irrimediabili

di Francesco Carbone

 

«Sono tutti morti.»

(Le avventure di Pinocchio, cap. XV)

 

«Non vuol studiare: vuol correre dietro alle farfalle e catturare gli uccelli di nido. Pinocchio è feroce. Ma il Grillo pare stranamente disinformato. Che intende dire: “da grande” diventerà un bellissimo somaro? Pinocchio non può diventare grande.»

(Giorgio Manganelli, Pinocchio: un libro parallelo, Einaudi 1977)

 

Nell’ambiente serioso e vecchietto della nostra cultura, forse il riconoscimento più simbolico del valore delle Avventure di Pinocchio fu, nel 1995, la scelta di porre sulla copertina del volume della Letteratura Einaudi dedicato alle opere dell’Ottocento, il bellissimo Pinocchio in fuga di Giambattista Galizzi (1942): non un’illustrazione dei Promessi sposi, delle Operette Morali o dei Malavoglia, ma di Pinocchio!

Che sia forse il libro più tradotto al mondo (almeno in 240 lingue), non toglie che neppure lo si nomini nella grandissima parte delle storie della letteratura italiana; e già su questo ci sarebbe da pensare. Eppure Pinocchio è stato amato – tra gli altri – da Benedetto Croce, Guido Gozzano, Italo Calvino, Gianfranco Contini, Pietro Citati, Elémire Zolla, Alberto Savinio, Luigi Malerba, Carmelo Bene, Federico Fellini, e naturalmente Giorgio Manganelli, che dal capolavoro germinò quella meraviglia di avventurosa lettura scritta che è Pinocchio, un libro parallelo (Einaudi 1977, Adelphi 2002). Ciò non toglie che nelle scuole i giovani del tempo di TikTok sono aspettati al varco da pagine serie sulle Odi barbare che nessuno legge, ma neppure da una riga sulle Avventure di Pinocchio. Per dire quanto certe distrazioni da don Ferrante sappiano essere inscalfibili.

 

Un po’ per togliersi dall’imbarazzo, si usa dire che Pinocchio sia stato il capolavoro per caso di un autore attempato (Collodi aveva 55 anni) per il resto irrimediabilmente mediocre; questo se però non consideriamo almeno la bellissima traduzione delle favole di Perrault, I racconti delle fate, pubblicate sei anni prima, e quindi nel 1875 (Adelphi 1976). E poi non fu lo stesso Collodi a definire la storia del burattino una «bambinata»?

Tutti sappiamo che Pinocchio apparve su Il giornale per i bambini a puntate; aggiungiamo che l’autore si mostrò incostante e bizzoso, incapace di mandare i brevi capitoli con una scadenza regolare: piuttosto obbediva a logiche che «hanno dell’imprevisto e dell’imprevedibile», tanto rapsodiche che «non è nemmen certo che Collodi sapesse, di capitolo in capitolo, […] quale sarebbe stato lo svolgimento della vicenda» (Alberto Asor Rosa, Le avventure di Pinocchio, Letteratura Italiana Einaudi, Le Opere, III, 1995). Eppure il libro è miracoloso: sarà stata l’opera di uno scrittore sonnambulo, diretto da una Musa più strega di campagna che signora dell’Olimpo? Viene in mente la volta in cui chiesero a George Bernard Shaw se credesse che la Bibbia fosse stata scritta dallo Spirito Santo: rispose che tutti i libri, se buoni, lo sono.

Sarà stato allora lo Spirito Santo a illudere Collodi che la storia del burattino avrebbe potuto finire davvero col nerissimo e incongruo XV capitolo, che abbandona il burattino impiccato a una grande quercia. Idea sconcertante, perché non si può capire come mai il Gatto e la Volpe decidano di tendergli un agguato e ucciderlo, quando l’ingenuissimo burattino era più che pronto a farsi truffare con la semina dei suoi zecchini d’oro nel Campo dei miracoli. Invece della finezza dell’imbroglio, la violenza improvvisa e pasticciona che tutti conosciamo. Un’agonia che finisce così: «chiuse gli occhi, aprì la bocca, stirò le gambe e, dato un grande scrollone, rimase lì come intirizzito. Fine».

Un esito non così perverso per la pedagogia di quel secondo Ottocento arcigno in cui, fatta l’Italia, c’era da fare senza troppi complimenti i giovani italiani. Si pensa subito – arriverà pochi anni dopo – alla sequela di morticini esemplari e altamente pedagogici che propinerà ai sui lettori Edmondo De Amicis con Cuore nel 1887 (su questo, bellissimo di Alberto Arbasino Le appagate nefandezze in Certi romanzi, Einaudi 1977).

 

In quel primo Pinocchio «mortuario e infernale» (Giorgio Manganelli), accadono invece quasi solo cose criminali, notturne, folli e irrimediabili. Il burattino nasce teppista: appena ha la bocca, fa le smorfie; appena gli viene liberato un piede, tira un calcio al naso di Geppetto; e appena finito scappa via provocandone l’arresto, senza che la perdita del papà gli provochi il fastidio di un pensiero. Appena solo, il primo gesto di Pinocchio è uccidere il Grillo: occorre altro? — Vedremo quindi che conosce il lamento ma non il pentimento, che è egoista, irresponsabile e con la vocazione del vagabondaggio: direbbero i genitori di oggi, una creatura ingestibile. In ogni caso troppo vitale per un padre materno, remissivo e rassegnato come Geppetto, che subito capisce il disastro: «Me lo merito! — disse allora fra sé. — Dovevo pensarci prima! Ormai è tardi!» (cap. III).

Pinocchio dunque era nato per fare una brutta fine. Per come l’aveva pensata Collodi, la sua storia dissennata sarebbe stata la compiuta realizzazione della profezia del Grillo: lo svolgimento fino alle conseguenze ovvie ed estreme di un teorema cupo, da Antico Testamento; se educativo, di una pedagogia torva, che punisce – impossibile non pensare a Kafka — un odradek (vedi caso, il racconto di Kafka si intitola Il cruccio del padre di famiglia) non fatto per questo mondo di padri, ladri, scuole, soldi e miseria.

 

Proprio grazie a Pinocchio, Il giornale dei bambini era arrivato a vendere 25.000 copie. Le proteste contro il finale da tregenda ci furono subito, e Collodi – come la Sherazade delle Mille e una notte – riprese da quel punto il suo «racconto strampalato» con «perfetta disinvoltura, tra molte piroette dell’immaginazione» (Benedetto Croce, Aggiunte alla Letteratura della nuova Italia 1937).

Se questo non fosse accaduto, non avremmo la meravigliosa scena dei dottori al capezzale del burattino, la quantistica Fata turchina ora bimba ora mamma, l’omino di burro, il Paese dei Balocchi, Pinocchio che diventa asino, l’enorme pescecane asmatico, e la finale metamorfosi – quale caduta… – del burattino perverso e polimorfo in uno scolaro modello, pronto per la castigatissima terza elementare che troviamo sempre in Cuore di De Amicis (1886). Si potrebbe dire che, adempiendo così a un «intento educativo quasi inesistente all’inizio» (Asor Rosa, 1995), Collodi riconducesse il suo racconto stravagante e irresponsabile nell’alveo della sua prolifica produzione consueta e fortunata di libri pensati per la scuola serissima della giovane Italia post-risorgimentale e umbertina.

 

L’editore il Palindromo ha avuto il coraggio nel 2019 di pubblicare quel primo Pinocchio che Salvatore Ferlita, nella sua postfazione, definisce rimosso. È un libro editorialmente perfetto: quello che Gérard Genette ci ha insegnato a chiamare paratesto (copertina, risvolti, qualità della carta e della stampa, caratteri grandi e interlinea ariosa come sarebbe piaciuto a Kafka, ecc.) qui sono da paradiso dei libri.

Soprattutto, questo Pinocchio è imperdibile per le illustrazioni di Simone Stuto. Il romanzo di Collodi è uno di quei libri che esigono un coautore nel suo illustratore. Pinocchio ne ha avuti di geniali: Attilio Musino (1911), Luigi e Maria Cavalieri (1924), Giambattista Galizzi (1942), Leonardo Mattioli (1955), Benito Jacovitti (che l’ha illustrato tre volte), Roland Topor (1972), Emanuele Luzzati (1996).

Simone Stuto ci offre un Pinocchio grottesco come il racconto. Con il meraviglioso bianco e nero delle sue matite grasse, ci fa cadere in un mondo di figure deformi, torvamente e rassegnatamente disperate come certe maschere di Ensor. L’unica versione che viene da avvicinargli è quella di Topor. Simone Stuto ci offre figure – uomini e animali – che paiono emblemi di una storia di miseria atavica, al di sotto di qualunque fantasia di riscatto: corpi modellati da inedia, artrosi, senilità precoce e fame. Fanno pensare al cinema altrettanto periferico, sospeso e ilare di Daniele Ciprì e Franco Maresco, come lui siciliani: è uno dei migliori Pinocchi di sempre.

 

 

Carlo Collodi

Pinocchio. La storia

di un burattino

a cura di Salvatore Ferlita

illustrazioni di Simone Stuto

Il Palindromo, Palermo 2019

  1. 150, euro 15,00