SABA SECONDO COVACICH
TEATRO
SABA SECONDO COVACICH
di Fulvio Senardi
Una sala piena a metà, le luci che si spengono, un pubblico paziente in empatica attesa; inizia lo spettacolo: «Ho attraversato tutta la città […]». Niente di meglio, per ingraziarsi i triestini, che prenderli dal lato del cuore e su quella via maestra del loro sentire, orgoglio di campanile (e ricordi scolastici) che è la poesia di Umberto Saba. Lo spettacolo-lezione che Mauro Covacich inizia ad impartire si svolgerà tutto sullo spartito della poesia forse più famosa del Canzoniere, nota probabilmente anche al di fuori della città che ha dato i natali al poeta. Dentro quella cornice però il discorso di Covacich finisce per restare intrappolato, senza prendere ala per un’analisi più ricca, esauriente e profonda di uno dei grandi protagonisti della letteratura italiana del Novecento. C’è anzi un riduttivo implicito interpretativo, che diventa esplicito un paio di volte nel corso dello spettacolo: che Saba, in fondo, non sia mai stato capace di uscire da una sorta di marcia sul posto dentro la bolla dell’ “aria strana, tormentosa” di Trieste, che è ovviamente una rivelatrice dichiarazione di disagio intimo e personale piuttosto che un rilievo ambientale di valore oggettivo.
“Inverigolai” diceva un grande critico dei triestini, scrittori e non, e chi ha avuto il piacere di ascoltare le lezioni di Giuseppe Petronio certo la ricorderà. E, mentre alle spalle di Covacich si accumulano i grandi fogli di carta dove egli iscrive, strofa dopo strofa, la poesia di Saba, arricchendola di qualche nota esegetica sulla quale ci sarebbe da discutere, e dopo che l’attore-scrittore ha smesso di recitare impeccabilmente, l’accento giusto e l’opportuna cadenza, le parole che è venuto annotando, ecco rompere il silenzio lo stesso Saba – una registrazione d’epoca – che, con il tono querulo che gli conosciamo, e l’intonazione retorica che guasta ciò che sarebbe bello alla lettura, ci propone la Preghiera alla madre. Un colpo basso? Forse sì, ma involontario.
L’interpretazione di Covacich, che pure ricorda Storia e cronistoria del Canzoniere e chiude la lezione con Ernesto, è così esile, per i temi che tocca, l’inclinazione all’aneddoto e lo spessore della lettura critica, che ha bisogno di un riempitivo per raggiungere la richiesta pezzatura dei sessanta minuti. Bene dunque la parentesi in cui Saba si atteggia, con indiscutibile goffaggine, a grande dicitore, bene la parentesi verdiana (una Traviata, forse con Caballé e Bergonzi?), bene El can de Trieste, di un altro, più modesto, mito cittadino, Lelio Luttazzi.
Resta il fatto che il lungo percorso di un poeta che ha esordito nella Trieste asburgica e si è spento quando la città era ridiventata italiana, dopo i disastri della guerra, non viene che parzialissimamente illuminato. Confuso con i crepuscolari dall’amico-nemico Slataper (più il secondo che il primo), arieggia un cantafavola popolare in quel capolavoro straordinario che è Autobiografia (dove modella una forma-sonetto genialmente stralunata), si abbandona ad una musicalità tutta fremente di inquietudini novecentesche in Preludio e fughe, si fa paladino della psicoanalisi in un auto-riferito, legnoso e geniale Piccolo Berto, sfida gli ermetici sul loro terreno (di ascetismo espressivo) con Parole e con le liriche tersissime e pensose della “quarta stagione”. Mentre intanto si avventura con temerarietà inaudita su un terreno mai ancora calcato, l’aforisma, consegnandoci un’opera, Le Scorciatoie, che valgono tanto come sospiro di sollievo dopo la nera marea delle ideologie razzistiche quanto come atto di speranza in un mondo più giusto, perché “guarito” dalle nevrosi che generano odio al soffio del “vento del Nord” del nuovo Risorgimento, la Resistenza. Che l’ebreo perseguitato, l’anti-clericale, il poeta di tutti e vicino a tutti amò per sintonia di ideali e non solo, lo tenga a mente Covacich, perché ebbe la ventura di incontrare a tavola il simpatico Togliatti.