Ricordo di Fulvio Tomizza
Diego Zandel | Il Ponte rosso N° 32 | marzo 2018 | testimonianze
Tomizza era il rappresentante maggiore, in quel momento, di una letteratura alla quale sentivo di appartenere
di Diego Zandel
Avevo sempre creduto che non ci fosse bisogno di una tomba per una persona cara che muore. Credevo che quella persona, il ricordo di lei, la portavamo sempre dentro di noi, nella nostra anima, nei nostri pensieri. Così era anche per un amico, un Maestro, Fulvio Tomizza, uno scrittore che avevo amato e del quale avevo amato i libri, ricambiato con lo sguardo affettuoso del fratello maggiore. Materada, il suo romanzo d’esordio e La ragazza di Petrovia, così come i suoi romanzi successivi L’albero dei sogni e La quinta stagione mi avevano incantato. E raccontavano una storia, figlia di una Storia più grande, che era quella dell’esodo istriano che mi accomunava a lui. La ragazza di Petrovia era addirittura ambientata in un campo profughi, una realtà che non mi era affatto estranea per esserci nato e cresciuto… Dovevo assolutamente conoscerlo. Non subito, perché quando uscì Materada avevo solo dodici anni, ma più tardi quando diciassettenne pubblicai un libro di poesie, dal titolo Ore ferme per la storica Società Artistico Letteraria di Trieste e lui, giornalista della Rai, mi presentò a una trasmissione radio leggendo con la sua calda voce alcuni miei versi istriani. D’allora prese avvio la nostra amicizia che si concretizzò poi attraverso le varie lettere che ci spedimmo e negli altri incontri che avemmo a Trieste, ogni volta che, per andare a Fiume, a casa dei nonni, mi soffermavo lì per un paio di giorni; e ci vedevamo sempre a Roma, quando gli capitava di scendere in occasione dell’uscita dei suoi tanti, bellissimi libri.
Fu poi lui a tenere a battesimo il mio romanzo Una storia istriana, edito per i tipi di Rusconi nel 1987, mandandolo egli stesso agli editori, e poi, una volta pubblicato, presentandolo al pubblico triestino con Pierluigi Sabatti, giornalista de Il Piccolo al Circolo della Stampa (in quell’occasione, tra l’altro, conobbi Marisa Madieri, la scrittrice moglie di Claudio Magris, che era venuta ad assistere alla presentazione, dando anche con lei inizio a un’amicizia, cimentata dalle comuni origini fiumane, che sarebbe durata fino alla sua troppo prematura morte, e un altro grande scrittore, Stelio Mattioni, che poi si aggregò alla nostra piccola compagnia in una trattoria dove giustamente concludemmo la serata).
Ero, naturalmente, orgoglioso di questo mio padrinato. Tomizza era il rappresentante maggiore, in quel momento, di una letteratura alla quale sentivo di appartenere (e, solo più recentemente, ho scoperto sentivano di appartenere tutti gli scrittori istriani che, nella Jugoslavia comunista, leggevano di nascosto i suoi libri, fino a che non venne, come si dice, sdoganato, ed oggi Fulvio Tomizza, per lo più dimenticato in Italia, è molto di più ricordato in Croazia: sono gli amici di oltre confine che ogni anno, da anni ormai, organizzano a Umago e dintorni, i luoghi dello scrittore, il Forum Tomizza, una tre giorni in cui la sua opera e figura diventa oggetto di memorie e dibattiti).
Sono molti i libri che Fulvio Tomizza ha scritto, e i premi che con essi ha vinto, una volta lo Strega con La miglior vita, più volte entrando nel Premio Selezione Campiello, del quale vinse una finale con La quinta stagione e il Viareggio con L’albero dei sogni. Ebbene, non ce n’è uno che non abbia letto e del quale non abbia scritto, privilegiando le interviste, allora per il quotidiano romano Paese Sera al quale collaboravo, interviste che erano anche l’occasione per stare un po’ di tempo insieme.
Il nostro legame si è perpetuato dopo la sua morte, anch’essa prematura, a soli 63 anni, essendo egli nato a Giurizzani, nei pressi di Umago, nel 1935 e scomparso a Trieste nel 1999. Una gioia e un onore grande l’ho avuto nel 2011 a Trieste quando alla Libreria Svevo, prima della presentazione del mio libro I testimoni muti, edito in quell’anno da Mursia, mi si fece vicino una signora anziana che al momento non riconobbi.
“Sono Laura, la moglie di Fulvio Tomizza. Sono venuta solo per salutarti perché so quanto tu e Fulvio eravate amici”. Quella visita mi commosse. D’istinto l’abbracciai. Prima di allora avevo visto Laura Levi una volta soltanto, quando con Fulvio andammo a casa sua, in via Giulia 3, e stappammo una bottiglia di malvasia istriana della vigna intorno a casa. Una casa che non era la sua di famiglia, ma che aveva comprato, grazie al prestanome della nonna, visto che fino a pochi anni fa in Croazia agli italiani, al contrario di altri cittadini europei, era interdetto il diritto di comprare case. Una casa dove negli ultimi anni lo scrittore si ritirava per scrivere, potendo così farlo respirando l’aria della sua terra.
Ecco, in quella casa, io ci sono andato solo nel 2012, con un gruppo di scrittori, insieme ai quali abbiamo visitato i suoi luoghi: Materada, Giurizzani, Petrovia… borghi di poche case, che nei romanzi di Tomizza hanno la dimensione del sogno e appaiono molto più grandi di quello che in realtà sono. Lì, ciascuno di noi, ha letto qualcosa. Io alcune belle lettere che Fulvio mi aveva scritto. E che poi ho dato a Sanja Roić, docente di letteratura italiana all’Università di Zagabria, che guidava il gruppo di scrittori e poeti e che sta raccogliendo materiale dello scrittore istriano per il Fondo Tomizza che ha sede a Lugano.
Ma, trovandomi nei luoghi di Tomizza, la sorpresa più grande l’ho avuta quando, ci siamo ritrovati nella chiesetta di Materada, con accanto il cimitero. Non sapevo che Fulvio fosse sepolto lì. Ero convinto che lo fosse a Trieste. Invece mi trovai davanti alla sua tomba. A stento trattenei le lacrime. In quel momento provai la sensazione di ritrovare, dopo tanto tempo, un amico. E se fino allora avevo sempre pensato, come ho detto all’inizio, all’inutilità delle tombe perché le persone che amiamo le portiamo sempre dentro di noi, nell’anima, finché non siamo noi a morire, in quello stesso momento, per l’emozione che provai davanti alla sua tomba, cambiai idea. D’allora, ormai credo che, sì, una tomba ci vuole.