Rappresentare l’Opera
Il POnte rosso N° 72 | Luigi Cataldi | MUSICA | settembre 2021
Riflessioni sulle regie d’opera odierne in occasione della scomparsa di Graham Vick
di Luigi Cataldi
Graham Vick, regista melodrammatico di prima grandezza, è morto di covid il 17 luglio scorso. La notizia offre lo spunto per qualche considerazione sulle sue spesso provocatorie regie.
Nato a Birkenhead, presso Liverpool. nel 1953, dal 1994 al 2000 alla guida del prestigioso Glyndebourne Festival Opera, Vick ha lavorato per i principali teatri di tutto il mondo e spesso in Italia. I temi sociali e politici di stretta attualità hanno sempre caratterizzato le sue regie. Negli anni Ottanta mise in scena West Side Story di Bernstein in un mulino abbandonato nello Yorkshire con 300 disoccupati del luogo. Nel rossiniano Mosè in Egitto (Rossini Opera Festival 2012), ha dato a Mosè l’aspetto di Bin Laden. Studenti tossicodipendenti che vivono in un sordido appartamento, situato in un quartiere malfamato, dediti a spaccio e prostituzione, sono i protagonisti di una sua recente Boheme (Bologna 2018). Gli esempi potrebbero continuare. Eppure la società che conta, bersaglio ricorrente delle sue provocazioni, lo ha colmato di benemerenze: docente onorario a Birmingham e ad Oxford, Comandante dell’Ordine dell’Impero Britannico, cavaliere per i servizi resi alla musica e alle regioni del Commonwealth.
La sua creazione più importante è la Birmingham Opera Company, che fondò nel 1987 e di cui fu direttore fino alla sua scomparsa; una ricognizione di tale sua creatura si trova nella tesi di dottorato per la Scuola di Teatro Paolo Grassi di Andrea Piazza, reperibile on line; da cui ricavo le citazioni qui presenti. Non si tratta di un teatro stabile, ma di un «organismo flessibile che risponde alla società e alla comunità in cui vive». I luoghi delle rappresentazioni cambiano di volta in volta.
L’opera lirica, secondo Vick, deve essere liberata dal «ghetto benestante» in cui si trova attualmente, visto che è finanziata da tutti (con fondi pubblici) per il piacere di pochi privilegiati; «deve uscire dalla sua torre d’avorio e sporcarsi direttamente con la società». I problemi sociali diventano così ragion d’essere dell’opera. Conflitti etnici, povertà, disoccupazione, prostituzione, sfruttamento, degrado urbano (problemi particolarmente gravi a Birmingham), diventano il vero oggetto delle rappresentazioni. Ad ogni produzione prendono parte almeno un centinaio di Brummies (gli abitanti di Birmingham) di ogni condizione sociale, nella veste di attori, cantanti, figuranti, che spesso costituiscono un coro di cittadini. Non servono per questo competenze professionali ma è essenziale che essi siano ciò che socialmente sono. Nel 2015 Vick mise in scena in un magazzino abbandonato al centro della città Ice Breack del compositore britannico vivente Michael Kemp Tippett con la partecipazione di oltre 10.000 persone dei 10 distretti cittadini. Il luogo in effetti ha sempre importanza fondamentale: Fidelio di Beethoven (2002) in un tendone da circo; Lady Macbeth of Mtsensk di Shostakovich (2019) in una discoteca abbandonata. Lo spettacolo, che di solito è rappresentato in punti diversi dello spazio disponibile, senza alcuna divisione fra sala e scena, avvolge il pubblico che è in piedi e può muoversi liberamente. Il testo viene sempre tradotto in inglese per essere comprensibile; solo la musica resta com’è. La rappresentazione è evento irripetibile. Il messaggio deve essere chiaro al pubblico al di là dei contenuti originali dell’opera rappresentata: è il mondo attuale con i suoi problemi ad essere ricreato piuttosto che rappresentato.
Vick ha portato questa rivoluzionaria concezione anche fuori da Birmingham. Ad esempio nel 2018 per il suo Flauto magico al Festival di Macerata, lo Sferisterio fu trasformato in un campo profughi, il testo fu tradotto in italiano e il pubblico coinvolto in una sorta di karaoke. Era l’epoca in cui Macerata era stata funestata da episodi di odio razziale, culminati nell’attentato del neonazista Luca Traini, che ferì sei immigrati. Ma ambientare l’opera allo Sferisterio è cosa diversa che collocare la rappresentazione in un vero campo profughi e, più in generale, fra la tragica realtà di quei fatti e la pur condivisibile reazione di Vick c’è uno scarto enorme: quest’ultima resta confinata nell’ambito del pubblico non certo grande dell’opera lirica.
La situazione diviene ancor più complicata nei teatri storici, dove in genere il gesto dissacrante e provocatorio del regista si colloca in un sistema rappresentativo tradizionale. Ne sono un esempio le mozartiane Nozze di Figaro andate in scena al Teatro dell’Opera di Roma nel 2018 con la direzione musicale di Stefano Montanari (si possono vedere su RaiPlay).
La vicenda, ricavata da Beaumarchais per opera di Da Ponte e rappresentata per la prima volta al Burgtheater di Vienna nel 1788 con la musica di Mozart, ruota attorno alle contrastate nozze di Figaro e Susanna, della quale si è invaghito il Conte, loro padrone. Per Vick l’opera mette in scena la sopraffazione e il potere, che, dice, «è sempre abuso». Ne abusa non solo il Conte, ma anche la Contessa, Susanna, Figaro e tutti gli altri personaggi per quanto possono. Persino l’amore, ridotto a mera pulsione erotica, diviene strumento di potere di cui ci si serve o da cui si è oppressi. Il palazzo del Conte si tramuta così in un vero e proprio luogo dell’orrore. Lo comprendiamo già durante la sinfonia. Le serve lucidano il pavimento chine a terra; a volte sono prese da convulsioni; spesso si proteggono le parti intime come se temessero uno stupro. Entra il Conte, sceglie una di loro, le offre del denaro e se ne va con lei. La scena, ambientata come sempre da Vick ai giorni nostri, non rappresenta solo il palazzo del Conte, ma la nostra società, nella quale sono enormi e diversissime le forme di sopraffazione. I preti pedofili, la violenza sulle donne, quella nel mondo del lavoro sono gli esempi che Vick cita nell’intervista fra gli atti. Li raffigura a partire dal secondo atto con un enorme elefante. È la metafora di ogni sopruso (dal detto inglese «an elephant in the room»); indica un gigantesco problema che tutti hanno sotto gli occhi, ma che nessuno vuol vedere. Progressivamente gli aspetti orrifici si accentuano. Nel quarto atto dell’elefante si vedono solo le quattro enormi zampe, ma cadaveri di donne insanguinate sono appesi alle pareti e abbandonati a terra. È in questo clima che si svolge la conclusione dell’opera, in cui il Conte viene prima sorpreso nel suo goffo tentativo di adulterio dalla Contessa travestita da Susanna e infine da lei stessa perdonato. È un finale catartico in cui, grazie al ridicolo di cui il Conte si è coperto e all’indulgenza della Contessa, non solo si scioglie il nodo della commedia, ma si ricostituisce la pace sociale.
Nella messa in scena di Vick questo finale acquista un significato del tutto diverso. I personaggi sulla scena fanno esattamente ciò che è stato previsto da Mozart e Da Ponte, ma, letteralmente, essi gioiscono in mezzo agli orrori. Come è possibile una ricomposizione della società in mezzo ai corpi delle vittime della violenza di cui tutti sono responsabili? Il messaggio è forte e anche chiaro, ma è opposto a quello che Mozart e Da Ponte intendevano trasmettere. L’indulgenza da virtù diviene colpa; il comico si trasforma in invettiva. Eppure se a Birmingham i problemi sociali della città sono letteralmente incarnati da coloro che ne sono vittime, qui sul palcoscenico di un teatro tradizionale ci sono il Conte, la Contessa, Figaro e Susanna. I problemi sociali sono solo evocati, non incarnati, e il prezzo che si paga è la cancellazione dei contenuti originali dell’opera.
Scena da
Le nozze di Figaro
Teatro dell’Opera
Roma 2018