PIERO MARUSSIG TRA TRIESTE E MILANO
Fabio Cescutti | Febbraio 2016 | Il Ponte rosso N°9 | pittura
Nuovo volume della Collana d’arte della Fondazione CRTrieste
di Fabio Cescutti
C’è in molti artisti un contrasto fra realtà e aspirazioni. Può succedere infatti come nel caso del pittore Piero Marussig (Trieste 1879 – Pavia 1937) di essere amato per le opere legate alla casa, i familiari, la villa fra il Carso e l’orizzonte sul mare che creò nell’assenza di contatti con quanto allora nella città di Svevo, Saba e Joyce bolliva a fuoco lento nella pentola dalla quale ancora oggi il mestolo della storia regala profumi di letteratura. La sua era un’educazione passata attraverso Monaco, Vienna, Roma e Parigi e – una volta formatasi – cresciuta nella cassaforte di un giardino in cui i colori frutto dell’intenso espressionismo erano la mediazione con uno stato d’animo complesso, talvolta insicuro e indifeso. O meglio difeso dal piccolo gruppo di parenti e amici dove il suo essere poteva esprimersi fra pranzi, bevute e molta sensibilità riflessa nei viola e azzurri misti al verde. Eppure quel grande periodo triestino chiuso in terra austriaca dalla prima guerra mondiale non sarebbe stato sufficiente a dargli un posto nella storia dell’arte italiana, quella che Margherita Sarfatti costruì insieme a Mario Sironi, Achille Funi, Ubaldo Oppi, Anselmo Bucci e tanti altri. Ovvero l’identità nazionale tradotta nella pittura derivante da Giotto e Masaccio. Così Piero fu acquistato dai più grandi collezionisti dell’epoca come Rino Valdameri, Alberto Della Ragione, la famiglia Boschi Di Stefano. Ed è grazie alle opere del Ventennio che trovò un posto al sole, posto che aveva cercato e voluto. Quel sole che oggi illumina i quadri della sua giovinezza, l’età dell’innocenza alla quale Marussig volta le spalle per dirigersi a Milano.
Il diciassettesimo volume della Collana d’arte della Fondazione CRTrieste diretta da Giuseppe Pavanello e firmato dalla storica dell’arte Alessandra Tiddia curatrice al Mart di Rovereto punta – come è ovvio – sulla prima produzione dell’artista. Che però non sarebbe diventata tale, dunque famosa, se a quarant’anni Piero non avesse scelto di chiudere un periodo della vita per intraprendere alla vigilia del fascismo la strada milanese. E non a caso in copertina del catalogo fanno bella mostra le Donne al caffè del 1924, provenienza Emilio Jesi e oggi Museo del Novecento, quasi un manifesto del ritorno all’ordine che proprio in Italia trova una delle migliori declinazioni europee.
Trieste nel novembre del 1918 era ormai italiana ed è probabile – a nostro avviso – che non fosse stato un fattore patriottico alla base della scelta lombarda di Marussig. Vista l’età ne avrebbe avuto il tempo prima. Con tutt’altra storia Felice Carena nel 1917 ha trentotto anni. Come il nostro Piero. Nascendo nel torinese ha un immaginario diverso e da uomo maturo parte come caporale, diventa ufficiale di artiglieria combattendo sull’Ortigara, vivendo la rotta di Caporetto e il trionfo di Vittorio Veneto. La scelta di Marussig potrebbe invece essere stata un percorso verso quella che era la culla della nuova pittura lontana da secessioni e architettata su volumi e plasticità che nel suo caso a Cézanne dovevano qualcosa.
In molti giuliani la stella polare dell’italianità era stata Firenze, per certi aspetti più coerente con la lingua di Dante. Ma le rivisitazioni di Giotto avvenivano soprattutto nella capitale della modernità, Milano che era già stata futurista. Avulsa dunque da nuovi linguaggi culturali rispetto alla città toscana che era pur sempre riferimento per Ottone Rosai e dove all’Accademia insegnava Carena, mentre l’orizzonte di Ardengo Soffici era più ampio. L’idea irredentista insomma non abitava nel parco della villa di Chiadino dove Piero viveva con la moglie slovena Rina Drenik. E la sostanziale assenza nelle attività del Circolo artistico di Trieste, dove l’italianità era invece di casa, confermerebbe la freddezza dell’artista sui temi politici. Del resto prima del conflitto mondiale la documentazione e le note del pittore sono scarse. Partecipa ad alcune mostre: la Biennale di Venezia del 1912 e a Vienna quelle della Secessione dal 1910 al 1914, con l’eccezione del ’13, ma è presente anche a Napoli e a Roma.
Marussig sceglie Milano in quanto comprende che il tempo passato era perduto per sempre e vuole vivere nel mondo nuovo, quello della Sarfatti fra la concorrenza spietata dei migliori artisti italiani. Quel mondo alla fine lo deluderà. Perché parlava l’italiano sbagliando i verbi, perché era faticoso lavorare nell’occhio del ciclone della pittura quando il passo di Benito Mussolini scricchiolava nelle gallerie e scivolava sul marmo delle pavimentazioni nei templi dell’arte accanto all’amata Margherita.
Il libro della Tiddia che ci fa riflettere su intriganti affinità cromatiche tra la pittura di Marussig e quella slovena del gruppo Sava in particolare con Ivan Grohar e i suoi toni azzurro e viola, ha il merito di incrementare il numero delle opere raccolte dal catalogo generale uscito nel 2006 a firma di Claudia Gian Ferrari, Nicoletta Colombo e Elena Pontiggia avvalendosi nel lavoro dell’Archivio Gian Ferrari donato nel 2015 al Museo Revoltella. Alcuni quadri di ubicazione sconosciuta sono stati rinvenuti – come scrive l’autrice – in grandi collezioni di musei internazionali come il Pushkin di Mosca, lo Stedelijk di Amsterdam e i musei di Montevideo, San Paolo e Helsinki seguendo le tracce della promozione di Novecento negli anni Trenta da parte della Sarfatti. Questa internazionalità si coniuga dunque con lo slancio degli esordi che lo vide viaggiatore e attento studioso nelle capitali europee della cultura. A questo slancio la Tiddia dedica particolare attenzione “nella convinzione che fra il 1914 e il 1919 Marussig ha raggiunto l’apice della sua espressività”. Come scrive Raffaele Carrieri “scandiva Van Gogh con una leggera inflessione bavarese”. Tutto questo emerge dalla mostra alla milanese Galleria Vinciana nel 1919. Il resto della sua storia è una crescita fra Biennali di Venezia e, purtroppo, il contraltare di un vivere appartato dopo il 1930. Ancora Carrieri: “… Una volta a tavola era difficile rimuoverlo. Libava senza fretta, con sorsetti d’amatore. Pensava col vino. Dopo ogni bicchiere appariva più limpido”. Muore di cirrosi epatica a Pavia nel 1937, accompagnato all’ospedale dal suo amico Francesco Messina.
Le nature morte furono una costante qualitativa del suo dipingere. La Tiddia rimandando al pensiero di Flavio Fergonzi sull’influsso di Chardin nel Novecento in Italia ricorda l’interpretazione di Ardengo Soffici a proposito della superiorità della conoscenza interiore della realtà visibile rispetto a un’ottica e percettiva. È il nodo che collega Morandi al maestro francese. E poco più tardi a Chardin il nostro Piero. “Forse per tutto questo” citando sempre Carrieri “dipingeva cose semplici con animo difficile”.
Donne al caffè
1924 – olio su tela
Milano, Museo del Novecento