Per caute sopravvivenze

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Un piccolo dizionario

di Malagigio

 

APP

 

Il lemma app è l’abbreviazione dell’inglese application, che a sua volta viene dal latino applicatio: è una di quelle tante parole che ci torna dopo essersi fatta un giro in Inghilterra. Nel Dizionario Treccani, gli esempi di oggetti che si applicano sono: le marche da bollo, i cerotti, gli unguenti, le pomate, ecc. Una app è dunque qualcosa che si appiccica su un «dispositivo», per esempio su un telefono cellulare.

Tutta una serie di servizi ci vengono forniti solo grazie a un’app. Le app si «scaricano», che però vuol dire che si «caricano». Visto che ragionare sulle parole vuol dire farsi venire le paturnie, controlliamo sempre sulla Treccani: scaricare significa «togliere» un carico, un peso. Si scaricano camion, navi, aerei, coscienze dal confessore, ecc. Quando ci siamo scaricati, restiamo, almeno per un po’, vuoti. Può essere un sollievo. A forza di «scaricare» app, invece, i cellulari si gonfiano, poi s’intasano e forse scoppiano.

Diciamo «scaricare» perché traduciamo l’inglese download. I francesi ci tengono a restare i più raffinati: loro dicono «télécharger des applications». Se gli inglesi prendono app dal latino, i francesi rilanciano col greco tele, che vuol dire lontano. E in effetti le app vengono, come l’evangelico ladro nella notte, invisibili e da lontano.

In italiano dunque le app si caricano scaricandole. Questo perché scaricare deve far pensare a qualcosa, come una stilla di scienza infusa. che ci viene da sopra, dall’alto. Per esempio da un cloud, che infatti vuol dire nuvola. Un nativo digitale potrebbe dire che il giorno di Pentecoste gli apostoli hanno scaricato lo Spirito Santo. Quell’app resta il sogno di tutti gli ingegneri che si apprestano ad appiopparci nuove app: faceva parlare e capire simultaneamente tutte le lingue, con un incremento stratosferico del turismo, almeno per i predicatori dotati della santissima app.

Oggi tutto ci dice che non si può più vivere senza un numero indefinibile di app. Se non si sa usare un’app, vuol dire che non ci si è applicati abbastanza. Appena si scarica un’app, potrebbe abbassarsi l’appetito: sarà il caso di prendere appunti. Per prendere appunti si può scaricare l’apposita app.

 

 

MANINA

 

Nel gergo della nostra cronaca politica, manina è sempre una sineddoche, che è quella figura retorica grazie alla quale – per esempio – si dice una parte intendendo il tutto. Per esempio: quando affermiamo che è il caso di pararsi il sedere, si presume che si voglia garantire l’incolumità di tutto il resto. Quando invece, nella Bohème, Rodolfo canta «Che gelida manina, se la lasci riscaldar», intende proprio che vuole stropicciare la manina di Mimì.

Nel caso della manina politica, s’intende un deputato o un senatore tutto intero, che all’improvviso frequenta il parlamento in incognito per infilare un furtivo codicillo in una legge o in un decreto. Infilare nel senso metaforico di aggiungere surrettiziamente qualche riga, meglio se criptica, per far sì che accada qualcosa di molto preciso: per esempio un condono.

È una questione di attimi. Le manine devono essere come il piè d’Achille: veloci (piè d’Achille è una sineddoche, supponendo che anche il Pelìde di piedi veloci ne avesse due).

Le manine politiche non sono gelide come quelle di Mimì – o forse metaforicamente sì – ma clandestine. Non lasciano impronte, o almeno non vorrebbero. Il talento delle manine è tanto più grande quanto più le loro aggiunte c’entrano con la legge in cui s’infilano come i cavoli a merenda (loro direbbero: come il cacio sui maccheroni).

Si è appena riscoperto che il condono per le case abusive a Ischia era stato infilato da una manina nel decreto legge per la ricostruzione del ponte Morandi a Genova. Per miracolo il golfo di Napoli era diventato una baia della Riviera di Levante: una specie di nipote di Mubarak geografica.

Tanto più labirintica è una legge, tante più manine s’ingegnano a infarcirla di codicilli: come uno strudel di pinoli. Le manine sono attratte soprattutto dalle leggi finanziarie: quei provvedimenti annuali, così lunghi ed ermetici che è impossibile leggerli persino per chi li scrive.

Le manine sono sempre complici tra di loro: amano il detto «una manina lava l’altra, e tutt’e due lavano la faccina (di bronzo)».

 

MANO

 

La legge finanziaria per l’anno 2023 ci ricorda che lavarci le mani è molto importante. È essenziale che lo facciano i medici e gli infermieri. È bello essere d’accordo col proprio governo: ci fa sentire più patriottici. Colpisce solo che, per persuadere chi lavora negli ospedali a lavarsi le mani, siano stati stanziati 23 milioni di euro (Articolo 94). Forse allora andrebbero incentivati – la legge è uguale per tutti –, anche gli autisti di autobus a tenere le mani sul volante invece che le dita nel naso; i pompieri ad avvinghiare bene i montanti delle scale quando si arrampicano al decimo piano di un palazzo in fiamme invece di farsi i selfies, eccetera.

La più bella tesi di laurea del XX secolo fu quella in medicina di Louis-Ferdinand Céline sul Dottor Semmelweis (Adelphi 1975). Racconta la storia terribile di Ignazio Filippo Semmelweis, il quale aveva scoperto che l’infezione puerperale era causata dai medici che visitavano le puerpere dopo aver sezionato cadaveri: senza mai lavarsi le mani. Questo accadeva nel 1847 a Vienna. Semmelweis non ebbe una medaglia, ma impazzì per il rancore degli altri medici, offesi dalle sue osservazioni sulle loro auliche mani infette. Col tempo però ci si arrese all’evidenza: mani pulite vuol dire molte meno infezioni.

Il nostro governo teme dunque che i medici italiani siano tali e quali a quelli di Vienna dell’Ottocento.

 

MAESTRO

 

(con la M maiuscola) – L’attuale Ministro dell’Istruzione e del Merito professor Giuseppe Valditara ha recentemente dichiarato che ai suoi tempi nelle scuole italiane il Maestro era chiamato «Signor Maestro, con la M maiuscola». Sicuramente si può dire qualunque parola facendo sentire che la si sta pronunciando con la maiuscola, e i maestri di quegli anni idilliaci avevano orecchie raffinate: appena si sentivano chiamare con la minuscola, giù una bacchettata.

Il Ministro è nato a Milano nel 1961: visto che è incline all’autobiografia, si riferisce ai mitici Maestri degli anni 60-70 del secolo scorso. A 35 chilometri dalla sua città c’è Vigevano (provincia di Pavia). Giusto un anno dopo la sua venuta al mondo, usciva il romanzo Il maestro di Vigevano di Lucio Mastronardi, che racconta la storia del «Maestro» Antonio Mombelli, il quale era povero proprio perché viveva con il minuscolo stipendio di maestro. Questo mentre Vigevano diventava ricca con le industrie calzaturiere, che erano spesso irregolari e quasi clandestine.

Il maestro Mombelli – reso immortale anche da un’interpretazione, questa sì maiuscola, di Alberto Sordi nel film che se ne fece l’anno dopo –veniva certo chiamato «Signor Maestro», ma era una figura irrimediabilmente patetica: viveva con la famiglia in un gelido sottoscala, e nonostante questo ebbe il colpo d’ingegno di rifiutare la bustarella da un ricco industriale che aveva un figlio talmente asino che non c’era altro modo per farlo promuovere.

L’industriale, il commendator Bugatti, si rivolge sempre al «Signor Maestro» Mombelli come si può immaginare che un ricco si rivolga a un maestro elementare: commiserandolo. Pare sempre che gli dica: «Ma tu cos’hai studiato a fare? Per diventare povero?».

Il più celebre libro sulla scuola resta Cuore: lì c’è l’imprinting di tutti i maestri italiani. Il primo si presenta ai suoi bambini così: «Io non ho famiglia. La mia famiglia siete voi. Avevo ancora mia madre l’anno scorso: mi è morta. Son rimasto solo. Non ho più che voi al mondo, non ho più altro affetto, altro pensiero che voi.» Quasi peggio dei Malavoglia.

Oggi un maestro elementare guadagna, nei primi otto anni, 1.262,39 euro al mese. Poi gli danno l’aumento.