Pedro Pàramo di Juan Rulfo
Gennaio 2018 | Il Ponte rosso N° 30 | in altre parole | Luisella Pacco
Lo scrittore messicano tra fotografia e narrazione
di Luisella Pacco
Un uomo sale a grandi falcate i sei scalini di una casa con dei libri in mano. Ad attenderlo sull’uscio, un altro uomo. Il primo separa dal mucchio un piccolo volume e lo consegna all’altro ridendo forte, sopraffatto dall’entusiasmo, ed esortandolo: “Leggi questo, cazzo, e impara!”.
A dirlo è Álvaro Mutis. L’amico che prende il libro – e lo leggerà, restandone irreparabilmente dominato – è Gabriel García Márquez.
È famoso, questo aneddoto.
Altrettanto noto è quello che Márquez successivamente dichiarerà: “Quella notte non potei dormire prima di averlo letto una seconda volta. Mai, dalla notte tremenda in cui lessi La Metamorfosi (…), avevo provato una commozione simile”.
Il libro era Pedro Pàramo di Juan Rulfo, scrittore sceneggiatore fotografo, considerato il più grande narratore messicano del Novecento e uno dei più popolari di lingua spagnola.
Chi conosce le mie letture e le mie preferenze, sa che non amo la letteratura latinomericana. O meglio, semplicemente la conosco poco e non ne sono attratta. Delle mie tante recensioni scritte negli anni, solo una tocca quel continente (e guarda caso si tratta di Mutis, L’ultimo scalo del Tramp Steamer).
È perciò abbastanza bizzarro questo mio desiderio di avvicinarmi a Pedro Pàramo. Merito dello scorso numero del Ponte rosso e dell’articolo sul festival del cinema latino americano che si è svolto a Trieste e durante il quale sono stati proiettati due film tratti dall’opera.
Qualcosa di quella storia (un viaggio quasi onirico in un villaggio abbandonato) attecchisce in me, mi intriga. Mi incuriosisce molto anche che Rulfo sia un fotografo.
Prima ancora di leggere il romanzo, vado alla Biblioteca Statale e, in un sonnacchioso sabato mattina – la sala sorprendentemente sgombra, senza studenti né sommessi parlottii – mi immergo in Messico: Juan Rulfo Fotografo (Jaca Book, 2002, 219 pagine) che non è disponibile per il prestito ma consultabile in sede.
Eccomi ad un tavolo, in un silenzio benedetto, a girare piano le ampie pagine precipitando in un Messico drammatico dal bianco e nero contrastato e fatale. Consiglio a tutti la lettura e la visione di questo splendido volume, imprescindibile per comprendere anche lo scrittore e la sua stessa opera.
Eduardo Rivero, nella parte intitolata Juan Rulfo, scrittura della luce e fotografia della parola (il cui esergo è il pensiero di Susan Sontag “il solo mostrare qualcosa, qualsiasi cosa, alla maniera fotografica, è mostrare che è occulto”) spiega bene, infatti, che in Rulfo è impossibile separare l’arte della scrittura dall’arte della fotografia. Sarebbe davvero ingenuo il critico che volesse occuparsi solo dell’una o dell’altra come se scrittore e fotografo fossero persone distinte. Le due arti si compenetrano invece così profondamente da divenire vitali e necessarie l’una all’altra.
Case distrutte, porte e finestre sgangherate, macerie, luoghi abbandonati, contrade desolate, calcinate, pianure in fiamme, cimiteri, croci, sepolture, chiese, antichi edifici, simboli religiosi, alberi solitari, piante grasse, uomini miseri, donne vestite a lutto, sfruttate; bambini laceri, dal riso perso; esseri vagabondi, volti induriti…
Esco dalla biblioteca vagamente stranita, diecimila chilometri lontana. Ho visto un mondo, il mondo di Juan Rulfo, ho percorso le strade di polvere, ho immaginato i visi, ho toccato le rughe scavate degli uomini e i fianchi larghi delle donne. L’onnipresente cactus, sodo e aguzzo, mi ha quasi punto le dita. Sì, ora – ora soltanto – sono pronta per la lettura…
La sorpresa è folgorante.
Márquez ebbe ragione a restarne impressionato. Si dice che proprio ad un passo di Pedro Pàramo (Il padre Renterìa si sarebbe ricordato molti anni più tardi della notte in cui la durezza del suo letto l’aveva tenuto sveglio e poi l’aveva obbligato a uscire) si debba il celeberrimo incipit di Cent’anni di solitudine: Molti anni dopo, di fronte al plotone di esecuzione, il colonnello Aureliano Buendía si sarebbe ricordato di quel remoto pomeriggio in cui suo padre lo aveva condotto a conoscere il ghiaccio. Macondo era allora un villaggio di venti case di argilla e di canna selvatica costruito sulla riva di un fiume dalle acque diafane che rovinavano per un letto di pietre levigate, bianche ed enormi come uova preistoriche. Il mondo era così recente, che molte cose erano prive di nome, e per citarle bisognava indicarle col dito.
Ma in Pedro Pàramo il mondo non è nuovo, anzi; è vecchio consunto, senza più storia né speranza, deserto (e mi rieccheggia nell’orecchio qualcosa di lontanissimo, che non c’entra assolutamente niente: Virginia Woolf, Gita al faro, quell’incantevole modo di descrivere l’abbandono in cui giace la dimora dei Ramsey… La casa fu abbandonata; deserta. Fu abbandonata come s’abbandona una conchiglia sulle dune a colmarsi di sterile sale in luogo della vita perduta).
Anche a Comala la vita è perduta, almeno per come la vorremmo intendere e limitare. Juan gira lungo un paese dove nessun vivo vive più e dove i morti vivono ancora tutti.
Pedro Pàramo è un romanzo piccolo (per dimensioni) e immenso (per salti temporali, temi, stile, suggestioni). Non ditemi mai che, data la brevità, l’avete “divorato” in un’ora, perché vorrebbe dire che non avete capito niente. Neppure una lettura lenta, di andate e ritorni, di pagine più volte rigirate all’indietro, è capace di fornire tutte le risposte.
D’altronde, a Rulfo non interessava darne.
Ernesto Ferrero, nell’illuminante prefazione al romanzo, ci ricorda che Rulfo aveva eliminato moltissime pagine (Pedro Pàramo è un’opera al meno. È il lavoro della sottrazione continua), lasciando frammenti.
“Per questo” diceva, “ci sono dei fili disciolti; se fossero rimaste tutte le pagine che ho tolto, tutto nel libro sarebbe perfettamente spiegato”. Ma a Rulfo non interessano le spiegazioni e neppure troppo la rappresentazione.
La trama, se così si può dire (ma quale tessuto ha trama così effimera e aggrovigliata?) prende avvio così.
Venni a Comala perché mi avevano detto che mio padre, un tal Pedro Páramo, abitava qui. Me lo disse mia madre. E io le avevo promesso che sarei venuto a trovarlo quando lei fosse morta. Le avevo stretto le mani per farle capire che l’avrei fatto; lei era pronta a morire e io a prometterle qualsiasi cosa.
Juan Preciado promette alla madre morente di andare a Comala (che vuol dire “luogo sulle braci”), ma il suo viaggio non sarà solo nello spazio, bensì in un tempo contorto e ingannevole.
Il luogo cui giunge è disabitato.
Adesso ero qui, in questo paese silenzioso. Sentivo cadere i miei passi sopra le pietre rotonde con cui erano lastricate le strade. I miei passi vuoti, che ripetevano il loro suono nell’eco dei muri colorati dal sole del tramonto.
Dietro gli angoli gli compaiono ombre.
Ad una traversa vidi una donna avvolta nel suo scialle che scomparve come se non esistesse.
La donna, che poi ricompare e lo accoglie in casa, gli dice che lo aspettava.
– Lei mi ha avvertito che sarebbe venuto. Proprio oggi. Che sarebbe arrivato oggi.
– Chi? Mia madre?
– Sì, lei.
[…]
– Mia madre, – dissi, – mia madre è morta.
– Allora è per questo che sentivo la sua voce così flebile, come se avesse dovuto attraversare una grande distanza per arrivare fin qui. Ora capisco. E da quanto tempo è morta?
– Già da sette giorni.
Nessuna sorpresa, nulla di strano.
Sin da subito, tra il passato e il presente, tra l’aldiqua e l’aldilà (qualsiasi cosa siano, fuggevole alla nostra conoscenza l’uno quanto l’altro) il dialogo appare subito possibile, ovvio, naturale.
Più tardi, qualcun altro dirà a Juan (lui stesso sempre più prossimo alle ombre):
Questo paese è pieno di echi. Ti sembrano rinchiusi nel vuoto delle pareti o sotto le pietre. […] Senti degli scricchiolii. Risate. Risate ormai molto vecchie, come stanche di ridere. E voci ormai logore dall’uso. […] E nelle giornate d’aria si vede il vento che trascina foglie d’alberi, mentre qui, come vedi, non ci sono alberi. Una volta ce ne sono stati, se no da dove verrebbero fuori queste foglie?