Nello specchio della scrittura

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Scrittrici e “personagge” in due opere di Silvia Ricci Lempen ed Elena Ferrante

di Fulvio Senardi

 

Escono, a poche settimane di distanza, due volumi che approfondiscono, con intrigante sapienza narrativa, il tema della condizione femminile. Si tratta de I sogni di Anna, di Silvia Ricci Lempen, romana di nascita ma svizzera d’adozione, e della Vita bugiarda degli adulti di Elena Ferrante (Edizioni e/o). Quanto al primo, va sottolineato che vede la luce per i tipi di “Vita Activa”, una giovane e dinamica casa editrice triestina che può già vantare, pur nella breve vita, un catalogo molto interessante, apertamente schierato “dalla parte delle bambine”, per far eco ad un famoso titolo degli anni Settanta su cui la frazione maschile della mia generazione ha modellato la propria percezione dell’altra metà del cielo. Per Elena Ferrante c’è poco da dire: un’altra tappa, la profezia è perfino scontata, della marcia trionfale di una scrittrice ormai affermatasi a livello internazionale e che ha fatto dell’approfondimento della realtà femminile la propria missione ottenendo risultati di altissimo livello (a questo proposito mi permetto di rivendicare un certo naso, come si usa dire, e mi riferisco al mio Elena Ferrante: pisarka – widmo, un saggio uscito nel 2011 in Polonia).

La Ricci Lempen, per guardare più da presso, articola nella sua narrazione per cinque tappe un sondaggio della condizione femminile fra i primi anni del Novecento e il giorno d’oggi, con un assai poco enigmatico prologo non scritto datato 2031-2032, come a suggerire che il futuro è nella potestà del nostro agire, in un presente che accumula segnali inquietanti ma che certo possiede gli anticorpi per riscattare le donne da quella condizione che è apparsa alla scrittrice, in una formula di sintesi che abbraccia l’intero passato, “un viscido gorgo di impotenza”: una “pagina bianca” dunque che allude al compito che attende una nuova generazione di donne europee. Le cinque stazioni, che pure consentono un approccio separato come fossero racconti fini a se stessi, si integrano in una sola narrazione grazie a studiati legami di intreccio e squadernano agli occhi del lettore dei faticosi percorsi di emancipazione nei limiti che la Storia concede.

Non eroine di una libertà impossibile, ma donne vere, che si misurano in modo dolorosamente conflittuale con la dura palestra degli affetti che ogni società rappresenta, con lacci particolarmente costrittivi per la soggettività femminile nella granitica costanza della tradizione patriarcale; e donne raccontate con una rara capacità di seduzione, senza mai scadere nel didascalico, ma con finissima penetrazione di psicologia e assoluta precisione di contesti (lo documenta una breve appendice). Evitando stereotipi narrativi e troppi usurati colpi di scena Ricci Lempen è tuttavia in grado di predisporre meccanismi di sospensione e di attesa che incatenano alla lettura: il tutto dà luogo a una “staffetta” di vicende tradotte in racconto, tastando nodi, inventariando sconfitte, misurando progressi, e suggerendo quindi, con premeditazione felicemente risolta nel narrare, ampie prospettive di riflessione di genere. Non ci tragga in inganno l’aprirsi a ventaglio delle cinque storie: senza niente concedere al gusto post-moderno di una enigmatica “dispersione” (subalterno a un’idea della Storia come indecifrabilità e di conseguenza fuori portata dell’agire umano), sfaccetta un solido nucleo valoriale che trova, con felici variazioni, efficaci modalità espressive. Le differenti soggettività che giungono alla parola sfruttando tutte le possibilità della scrittura – racconto in terza persona, tecnica dell’io narrante, comunicazione epistolare – pur senza muoversi sul terreno di un “femminismo materialista”, alla Rosemary Hennessy per intenderci, chiamano in causa un vivere collettivo implicitamente ostile alla realizzazione femminile, a volte per la semplice inerzia del “così è sempre stato” che impedisce il riconoscimento di nuovi bisogni e l’accettazione di nuove identità. Ma a rendere godibile la lettura de I sogni di Anna, anche a prescindere del suo (mai greve) quoziente “pedagogico”, è il fascino di un stile cesellato, pur senza sofisticazione, in cui, quasi a inseguire l’espressività della poesia, il segno si fa “scivoloso”, apre inattesi orizzonti di senso, collega gli infiniti piani dell’esperienza del mondo: un continente di immagini e metafore, un registro di visioni oltre che cronaca di vite vissute che sancisce l’appropriazione del reale per virtù di scrittura, quasi una rivincita nella bellezza di una subalterna posizione di genere.

Da qui, per contrasto, al libro della Ferrante, di cui colpisce l’elegante asciuttezza di stile cui una trama di simboli garantisce un più ricco spessore di senso, la cifra ormai, potremmo dire, del fare della misteriosa scrittrice. Come nella fin troppo osannata “tetralogia”, siamo di nuovo a Napoli e di nuovo sullo spartito del romanzo di formazione. L’Io narrante è Giovanna e insieme Giannì, a seconda la si guardi nella prospettiva della città del privilegio sociale e culturale, l’ambiente dove la tredicenne comincia a porsi domande su se stessa e sulla vita, o nell’ottica dei quartieri degradati, dove il dialetto sostituisce l’italiano e la sintassi delle pulsioni quella più controllata e sottilmente ipocrita delle buone maniere borghesi. Analogamente a certe opere di Pirandello (si ricorda il tema del naso di Moscarda in Uno nessuno e centomila?) la macchina narrativa è messa in moto da una minima sfasatura che incrina l’idillio dell’infanzia: “due anni prima di andarsene di casa mio padre disse a mia madre che ero molto brutta”. Inizia da qui un percorso di conoscenza di sé e del mondo che consente a Giovanna di ricomporre le parti di una famiglia che indecifrabili ragioni di interesse ha diviso in due tronconi ostili, radicati in contesti diversi di quella città-mondo che è Napoli. L’attrazione che la protagonista prova per l’ambiente passionale, sanguigno, a suo modo schietto della zia Vittoria, di cui in casa non si parla mai e il cui volto, nelle foto di famiglia, è stato minuziosamente cancellato, è la grande apostasia verso il ceto cui appartiene, le sue maniere, i suoi codici. Alla lingua “ragionevole” e compiaciuta del suo ambiente colto, un’espressività fredda e controllata che fa velo ai sentimenti, si contrappone infatti – qui un filo rosso che attraversa il romanzo con esplicita simbologia – un idioma diretto e sensuale, spontaneo e trascinante, la parola dialettale, “veloce e caric[a] di furia”, dove “un vocabolo esplode[…] dentro l’altro”, un grumo di vera intimità, un bozzolo di velluti e di veleni che sembra dare espressione a forme di esistenza più autentiche. Ma in effetti anche Vittoria, come scopriremo, si muove più che ambiguamente sulla frammentata linea di confine che separa sincerità e menzogna – un “garbuglio” di cui è scelto a simbolo un braccialetto, prezioso talismano di passione e di inganno, di desiderio e falsità –, anch’essa pienamente implicata nella incomprensibile realtà degli adulti. Un mondo difficile e opaco dove anche Giovanna-Giannì, a conclusione della sua ingenua e spietate indagine, non potrà rifiutarsi di accedere, magari senza troppe illusioni, con una scelta di deliberata crudezza. Senza desiderio né amore, decide di sbarazzarsi della verginità, quel feticcio di cui la società patriarcale di tutti i tempi e luoghi ha fatto strumento d’oppressione e che la intrappolava nella stagione infantile: “il giorno seguente partii per Venezia insieme ad Ida. In treno ci ripromettemmo di diventare adulte come a nessuno era mai successo”.

 

 

Silvia Ricci Lempen

I sogni di Anna Illustrazioni di Daria Tommasi

Vita activa, Trieste 2019 pp. 356, euro 17,00

 

Elena Ferrante

Vita bugiarda degli adulti

Edizioni e/o, Roma 2019

  1. 336, euro 19,00