Maria Callas
Francesco Carbone | giugno 2023 | Il Ponte rosso N°93 | profili
La bibliografia su Maria Callas è sterminata e spesso inutile: gli editori sono stati molto più interessati al pettegolezzo che all’arte. Per fortuna c’è altro
di Francesco Carbone
Brucia la mia candela da entrambi i lati;
non durerà la notte;
ma, o nemici e amici miei,
che bella luce diffonde!
(Edna St. Vincent Milles)
Maria Callas nasce a New York cento anni fa, il 2 dicembre 1923. Che sia il 2 non pare sicuro. C’è chi dice il 3, chi il 4 dicembre: tre date per il soprano dalle “tre voci”, che in realtà erano trecento. Maria Callas ebbe una vita che sarebbe stato impossibile inventare e un destino artistico sublime: sublime nel senso antico di «trascinare chi ascolta non alla persuasione, ma all’estasi» (Pseudo-Longino, Del sublime, Rizzoli 1991). La vita e la carriera della Callas furono troppo brevi. Cantò per l’ultima volta un’opera intera, la Tosca, al Covent Garden, a 42 anni. Morì il 16 settembre 1976. Aveva 53 anni.
Organizzato dal Maggio Musicale Fiorentino, per il centenario c’è già stato a Firenze il Convegno Internazionale La fiamma possente (19-21 marzo 2023): su YouTube si può assistere ai tre giorni ed è molto interessante.
La bibliografia su Maria Callas è sterminata e spesso inutile: gli editori sono stati molto più interessati al pettegolezzo che all’arte. Per fortuna c’è altro: soprattutto i due cofanetti con le registrazioni rimasterizzate dalla Warner Classic di tutte le opere in studio (The Complete Studio Recordings 1949-1969) e delle riprese dal vivo (Maria Callas Live Remastered 1949-1964): dischi, e anche questo è un unicum, mai usciti dai cataloghi. Maria Callas non è mai diventata una voce “storica”, come Caruso, Rosa Ponselle, Toti Dal Monte, la Tebaldi, ecc. Maria Callas è sempre stata qui.
Per chi non la conosce almeno un po’, è impossibile da riassumere e da definire. Fu un Big Bang: e a molti non piacque subito. Nacque subito il problema di definirla e che tipo di soprano fosse, e questa è stata sempre una questione complicata: se ne discute ancora. In ogni caso, il suo fu il timbro di soprano più riconoscibile di cui abbiamo memoria: come la voce di Louis Armstrong, anche per chi non ama il jazz.
Si era d’accordo almeno che forse da un secolo non si sentiva una voce, e soprattutto un’interprete, così: ma di quel tempo mitico (Maria Malibran, Giuditta Pasta, Pauline Viardot, Giulia Grisi) abbiamo solo racconti e leggende. Sempre su YouTube, c’è un bel documentario in spagnolo (Maria Callas, soprano assoluta), che confronta la Callas con molti grandi soprano di cui abbiamo testimonianze discografiche: confronto fondamentale. Certo vale quanto Federico Zeri ha detto dei grandi pittori: i grandi artisti sono sempre dei sublimi virtuosi, con una padronanza delle tecniche trascendentale. Maria Callas è una grandissima virtuosa. Il libro migliore su questo resta L’eredità Callas di John Ardoin, che è una guida completa a tutte le incisioni (Il Saggiatore 2014).
Che la Callas avesse portato lo sconquasso di una rivoluzione, con tutte le inevitabili resistenze, forse meglio di tutti l’ha detto il soprano Raina Kabaivanska: «la signora Callas ha rovinato tutti i soprani e li ha rovinati forse per tanti, tanti anni. Ha cominciato col rovinare i soprani leggeri con una voce drammatica. Ha rovinato i soprani drammatici facendo propria una interpretazione tutta sua, così noi adesso siamo vittime della signora Callas. Io, per carità, non vorrei mettermi sul piano della rivalità perché siamo lontane, lontane: io sono una cantante, mentre la signora Callas è un’epoca dell’opera… un’epoca».
Quest’epoca, questa rivoluzione, era una restaurazione, il ritorno al canto dei grandi soprani dell’Ottocento: «il ripristino di una tecnica che il verismo aveva praticamente distrutto» (Rodolfo Celletti, Musica n. 33): quella voce arida che «poteva acquisire timbri e colori indimenticabili» (sempre Celletti), con una cavata di quasi tre ottave e i suoi scandalosi cambi di registro, veniva da uno studio strenuo, compiuto soprattutto sotto la guida di Elvira De Hidalgo. La grandiosità di quella rivoluzione la si sente negli stessi dischi della Callas, dove troppo spesso i comprimari restano vecchi, manierati, a cominciare da Giuseppe Di Stefano, tanto dotato dalla natura quanto monotono e persino sguaiato nelle esecuzioni.
Nello spazio di un articolo, si può dire appena qualcosa di alcuni degli innumerevoli momenti assoluti e, come li ha chiamati Cristina Campo, «imperdonabili»: senza alcuna pretesa di offrire che primi frammenti, quelli che si suggerirebbe a un amico che vuole iniziare a conoscerla. Se l’amore s’accende, sarà per lui l’inizio di un viaggio per il quale non basta una vita.
29 settembre, 1955: al Berlin Staatsoper Herbert von Karajan dirige la Lucia di Lammermoor di Gaetano Donizetti: Lucia è – e già non poteva che essere lei – Maria Callas; Giuseppe Di Stefano è Edgardo; Ronaldo Panerai Enrico. Per assistere all’opera ci fu chi fece quattro giorni di fila.
Della sua ultima registrazione della Gioconda di Ponchielli, la Callas disse che nell’ultimo atto «c’è già tutto». Lo si può dire anche di questa Lucia. Per chi si contenta del suono compresso di YouTube, può ascoltare anche subito tutta l’opera. O almeno correre alla scena della pazzia: un flauto lunare accompagna l’apparizione di Lucia che ha ucciso l’uomo che era stata obbligata a sposare: è insanguinata, tiene ancora il pugnale in mano. Sta delirando: allucina il matrimonio con l’uomo che ha amato. E muore. Qui Donizetti non ha scritto una vera aria: si susseguono melodie brevi che si rompono, con continui incisi, vampe di entusiasmo folle e allucinato, salti di registro, note basse e alte, colorature: agilità da soprano di coloratura che la Callas – per prima – cantò col volume e i suoni penetranti di un grande soprano drammatico.
La Lucia di Lammermoor di Maria Callas è un esempio della sua rivoluzione: non usare più l’opera per l’esibizione del bel canto, ma in ogni frase, in ogni singola sillaba – sia di un’aria che d’un recitativo – essere il personaggio, far essere il dramma. Si può subito fare un confronto con un soprano post-Callas sublime come Joan Sutherland, che canta sempre stupendamente e diranno in tanti anche “meglio della Callas”, ma che solo canta.
Una volta la Callas disse della bellissima Anna Moffo che cantava come se facesse «il solletico alla musica», e dopo la Callas persino la Sutherland ci suona così. La Lucia di Berlino è un esempio di come la recitazione non si aggiunge posticcia al canto ma è già il canto, che è sempre un recitar cantando. Recitar cantando fu subito il comandamento dell’opera che nasceva: apparve la prima volta nel frontespizio della Rappresentatione di Anima, et di Corpo di Emilio de’ Cavalieri (1600).
Queste cose la Callas le ha dette quietamente in tutte le interviste che ci rimangono: studiando ogni nota – studiare è la parola essenziale – si trova non solo il bel canto ma «l’accento, il gesto, tutto», e tutto «è al servizio dell’espressione… in tutto questo noi cantanti non siamo creatori ma esecutori» (intervista con Lord Harewood, anche questa su YouTube).
Qui c’è un paradosso: se Gustav Mahler sosteneva che nello spartito c’è tutto tranne l’essenziale, Maria Callas dice l’opposto: tutto è scritto, e, se questo tutto non ritorna nella messinscena, è un difetto degli esecutori, che non hanno saputo «ascoltare» la musica che cantano. Eppure nello spartito non può esserci il timbro della voce, la musicalità, i colori, il carisma, il destino, quelli che Rossini chiamava «gli accenti nascosti», e quella che Leonard Bernstein, che la diresse in Medea e nella Sonnambula, chiamò l’«elettricità pura» della Callas: qualcosa a cui a cui lo spartito agogna ma come si agogna a un miracolo. Per questo il genio di Maria Callas è stato educato da tre maestri: Elvira De Hidalgo, che le insegnò il bel canto in qualunque parte avesse dovuto cantare, Tullio Serafin, il direttore che la educò ad ascoltare la musica per trovare l’interpretazione, e Luchino Visconti, che fu il suo regista tra il 1954 e il 1957.
Quando Eugenio Montale, che aveva studiato da basso-baritono, vide alla Scala La Sonnambula diretta da Bernstein, scrisse di aver conosciuto un «fenomenale soprano leggero tragico di sapore espressionistico»: quante parole per definirla, e che «quando non canterà più lascerà dietro di sé una leggenda». E Montale non era tra gli entusiasti di Maria Callas.
Il bello è che questo recitar cantando si percepisce anche nei dischi, nella sua sola voce, che mostra quella che Verdi aveva chiamato la «parola scenica»: questo anche se tutti quelli che hanno visto Maria Callas hanno detto che bisognava vederla per quello che era capace di essere anche in silenzio, nelle controscene.
Un secondo lampo: qualche mese prima della Lucia con Karajan, il 15 aprile 1955, Maria Callas canta alla Scala, diretta da Gianandrea Gavazzeni, la parte di Fiorilla nello stupendo Turco in Italia del giovane Rossini (l’aveva scritto che aveva 22 anni). E anche questo fa parte dello scandalo della Callas: qui lei non è la «gran vociaccia», come la definì Tullio Serafin. Nel Turco, con un cast finalmente all’altezza, la Callas regala un paradiso di leggerezza, malizia, sensualità: Che bel turco, avviciniamoci… Anche i turchi non mi spiacciono… Siete turchi, non vi credo… La stessa meraviglia nella parte di Rosina del Barbiere di Siviglia.
Il turco in Italia con Maria Callas era tornato alla Scala dopo 130 anni. L’importanza della Callas nel recupero in repertorio di opere dimenticate aprirebbe un discorso a parte, e importantissimo: Medea di Cherubini, Vestale di Spontini, Anna Bolena di Donizetti, e la trascendentale Armida di Rossini.
L’ultimo lampo. Torniamo indietro di altri cinque anni, al 27 settembre 1950. Maria Callas ha 27 anni. Arturo Toscanini la vuole ascoltare per un Macbeth di Verdi. Cantare diretta dal Maestro sarebbe stato il sogno della Callas. Quanto accadde a casa di Toscanini lo racconta il marito, in un libro che chissà se sarà mai ripubblicato (G. B. Meneghini, Maria Callas mia moglie, Rusconi 1981): Toscanini suona al piano quasi tutto il primo atto del Macbeth. Il Maestro riconobbe che aveva trovato la Lady Macbeth che aveva cercato tutta la vita: avrebbe fatto in modo che presto l’opera venisse messa in scena alla Scala. Toscanini aveva 83 anni. Si sa che Verdi per Lady Macbeth voleva una voce aspra, metallica, brutta. Quel Macbeth non si fece mai. Ma questo ora non conta. Tornando a Verona, Maria Callas in macchina disse al marito: «non so se si farà questo Macbeth, ma non me ne importa niente. Sono felice per quello che ho vissuto oggi a Milano».
C’è molto del carattere della Callas in questo. Di Macbeth abbiamo una registrazione storica del 1952 con Victor De Sabata, direttore più sottile e sfumato di Toscanini: la qualità del registrato è precaria, ma tante cose si capiscono. Si salti alla scena del sonnambulismo: come dimenticare quell’Una macchia è qui tutt’ora?
E resta dentro come un destino il Miserere del Trovatore: dirige ancora una volta Karajan, il più musicale direttore di opere degli anni cinquanta-sessanta, il tenore è Di Stefano. Si ascolti il modo di Maria Callas di far cantare le consonanti: «Sull’oRRida ToRRe, ahi paR Che la moRTe con ali di TeneBra liBRando si va».
Maria Callas con
Pasolini sul set di Medea