LUNATICO – A pranzo con l’autore

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Dušan Jelinčič al Posto delle fragole

di Walter Chiereghin

 

Ultima pagina (fuori programma) del “Lunatico Festival” è stato, domenica 2 ottobre, l’incontro con lo scrittore triestino di lingua slovena Dušan Jelinčič, evento cui abbiamo dato titolo “A pranzo con l’Autore”, immaginando che l’evento conclusivo del festival fosse anche il “numero zero” di una rassegna che mettesse in rilievo il lavoro e la personalità di alcuni autori in una cornice del tutto informale, come può essere quella di un pranzo tra amici. L’esperimento (tale era l’evento, soprattutto per l’orario e la collocazione in una giornata festiva) può considerarsi riuscito: suddiviso in una parte iniziale consistente in un’intervista pubblica sul complesso della produzione letteraria e del percorso biografico dello scrittore, cui è seguito, con un pubblico più ridotto, la parte conviviale che ha consentito di approfondire su un piano di conversazione amichevole la conoscenza con l’autore e il suo mondo. Del risotto di pesce o degli gnocchi alla sorrentina parleremo in altre occasioni: riportiamo di seguito un estratto dell’intervista.

Premetto che la mia conoscenza del tuo lavoro abbastanza approssimativa, intanto perché tu scrivi in una lingua e io ti leggo in un’altra, poi perché tu hai scalato tre ottomila e io mi sento a disagio già quando mi trovo all’altitudine di Opicina. Ciò non toglie che entrambi questi fattori siano per me motivo di un vivace interesse. Se credi iniziamo con la montagna: puoi dirmi cosa ti sospinge a scrivere di montagna?

Devo premettere che io sono uno scrittore che scala e non un alpinista che scrive, e la differenza è notevole: i libri scritti da alpinisti spesso risultano autoreferenziali e personalmente li giudico talvolta noiosi e il più delle volte vogliono testimoniare di se stessi inseriti in un preteso ambito eroico. Io ho sempre cercato di descrivere nei miei libri lo scrittore che è impegnato in una scalata, non la montagna. L’Everest è sempre quello, nel ’70 come nel ‘90: un insieme, per quanto straordinario e grandioso, di sassi e di ghiacci, sempre uguale a se stesso. Quanto a me preme di rappresentare nei miei libri è l’animo umano, le sue emozioni e le sue paure sulle pendici della montagna, perché è quella l’unica cosa che cambia in un paesaggio che è invece immutabile da millenni.

Ma nelle tre scalate che ti hanno visto impegnato su un ottomila, lo sforzo fisico è comunque enorme, anche perché, come mi spiegavi, dovevate rinunciare alle bombole di ossigeno per l’insufficienza del denaro che avevate a disposizione.

Sì, ma anche perché affrontare una scalata in questo modo non lo reputo onesto. Oggi ci sono molti che hanno scalato e che scalano le vette facendosi portare tutto, zaino compreso, dagli sherpa, comprese quindi le bombole di ossigeno. Oggi è possibile, spendendo da sessanta a centomila euro, scalare una vetta facendosi praticamente portare su da altri. La considero una cosa fondamentalmente disonesta, come correre i cento metri in motorino.

Ecco, ci sono molte cose di cui sono venuto a conoscenza leggendo i tuoi libri: per esempio l’idea che mi ero fatta (probabilmente vedendo un documentario o un telegiornale) di cosa sia una scalata includeva l’idea di una impresa sportiva di altissimo livello nella quale gli scalatori partono e puntano direttamente alla vetta, mentre in effetti non è così. È una storia di attese, tentativi successivi, campi base, anche di noia. Vero?

Vedi, quando parliamo genericamente di alpinismo parliamo in realtà di cose eterogenee e molto diverse tra loro. Per fare un paragone con l’atletica, ti dirò che l’alpinismo va suddiviso almeno in tre aree di diverso impegno: la prima è l’alpinismo classico, che conosciamo tutti, che arriva a mille, millecinquecento metri di altitudine, con difficoltà dal secondo grado al sesto, , paragonabile alle gare di mezzofondo in atletica, dopo c’è l’alpinismo sportivo, che è un’attività sportiva vera e propria, con difficoltà dal sesto al decimo grado, che può essere paragonato alla corsa dei cento o duecento metri, e la terza è l’alpinismo himalaiano, che ha caratteristiche sue proprie e che, restando nell’ambito del confronto con l’atletica, possiamo considerare come una maratona, per correre la quale devi allenarti fino allo sfinimento ed essere soprattutto tanto psicologicamente preparato.

Come sei finito tra i maratoneti, tu?

Si può dire quasi per caso. Diciamo che ho sempre amato la montagna, anche seguendo una tradizione familiare; ero tuttavia un alpinista di medie capacità e di media esperienza, quando mi hanno richiesto di far parte di una spedizione jugoslava. La richiesta non mi era pervenuta per le mie doti alpinistiche, ma semplicemente perché volevano un giornalista che facesse parte della spedizione che sarebbe partita alla conquista del Broad Peak, per raccontarla ai lettori jugoslavi. Ma siccome non sono il tipo che rimane al campo base, mi sono preparato con determinazione per affrontare tutti i test che erano richiesti per salire fino alla vetta, a 8.047 metri sul livello del mare.

All’epoca, era il 1986, non lavoravi ancora in RAI, ma eri nella redazione del Primorski dnevnik. Come ti riusciva di coniugare il lavoro con la preparazione atletica per l’impresa?

La preparazione per affrontare un ottomila richiede essenzialmente di allenarsi a correre in salita, con il peso di uno zaino di cinque o anche dieci chili sulla schiena. Lavorando al giornale, non finivo che a sera inoltrata, e andavo a correre sulla napoleonica, in salita (quando ero stanco) oppure dietro al Monte Grisa, hai presente la salita?

No, non ho presente, ma diciamo che ne ho sentito parlare…

Ecco: mi sono allenato per nove mesi, correndo in media cinque giorni a settimana, correndo in salita per venti o venticinque chilometri per volta. Ogni due o tre settimane dovevo superare un test sul Monte Nanos, su e giù in trentotto minuti, io che la facevo in poco più di quaranta, per un percorso che normalmente richiede, camminando, un’ora e mezza per la sola salita, ma se fossi andato anche di poco oltre per un paio di volte sarei stato fuori.

È evidente che tutto ciò era funzionale per affrontare uno stress fisico difficilmente immaginabile, come dev’essere quello di percorrere una cinquantina di metri in salita quando si è, senza ossigeno, a quota 7.800. Leggendo la tua testimonianza, tuttavia, mi meravigliava l’idea che molta parte del tempo era trascorsa al campo base, senza fare sostanzialmente nulla, dove c’è persino lo spazio per annoiarsi.

Il campo base sono delle tende piazzate a cinquemila metri, dove c’è quindi un 50% di ossigeno, su una morena ghiacciata larga una decina di metri, nelle quali si dorme praticamente sul ghiaccio. Ci si alza alle cinque del mattino, col sorgere del sole e si va a dormire alle nove di sera. Nell’inazione forzata, poi, vedi sempre le stesse facce, e anche lavarsi è un’impresa: se uno è molto pulito diciamo che si lavava una volta ogni tre giorni…

Beh, in cambio non si suda moltissimo!

Questo è vero. Però la vita in un’ascensione è questa, fatta anche di lunghi intervalli, che io riempivo leggendo continuamente, o prendendo appunti. La teoria codificata per una salita a ottomila metri prevede che si facciano almeno quattro salite, perché devi abituare la tua fisiologia alla mancanza di ossigeno; dunque si va dal campo base a cinquemila metri fino al campo uno, cinquecento metri più su, (c’è un campo, che poi è una tendina, ogni cinquecento metri), poi dopo un paio di giorni Sali al campo due, ridiscendi e così via, normalmente per quattro volte. Tra una salita e l’altra, la maggior parte del tempo è di ozio. Ma non posso dire di essermi annoiato: per esempio ho letto tutta intera la Ricerca del tempo perduto, per dire. Oppure andavo in giro a parlare con la gente degli altri campi base, compresi, a pochi chilometri, quelli del K2.

Ecco, questo riferimento al K2 mi induce a chiederti di un compagno di viaggio che certo non si desidera, ma che in condizioni così estreme è sempre presente, cioè la morte. Il K2 è stato teatro di molte sciagure alpinistiche, vero?

Sì, certo: proprio in quell’anno sono morti sul K2 tredici alpinisti in una sola stagione, che nel Karakorum dura tre mesi, da giugno ad agosto. Il discorso sulla morte, in montagna, è molto complesso e richiede di centellinare le parole. La prima osservazione è la necessità della prudenza, naturalmente. Sull’Himalaya normalmente i ragazzini non ci vanno, perché è richiesta non soltanto una valida esperienza, ma anche l’essere preparati dal punto di vista psicologico. Avere rispetto per la montagna aiuta a evitare incidenti: se ti fermi e torni al campo anche per una nuvoletta apparentemente inoffensiva, aumenti di molto la sicurezza dell’ascensione, e in teoria i rischi sono relativamente ridotti. Per contro, alle quote più alte, ti può capitare un’embolia e muori in mezz’ora, anche se sei la persona più sana, perché il sangue è molto più denso per la carenza di ossigeno, ed è successo che già al campo base qualcuno ci lasciasse la vita per questa ragione. È per questo che, oltre al rigore nei controlli prima della partenza, in ogni spedizione dev’esserci un medico, anche se purtroppo, per un problema di carenza di fondi, nella mia ultima spedizione nel 2003, quando ero ormai cinquantenne, il medico lo facevo io, perché ero l’unico laureato, anche se in Lettere. I problemi appaiono già quando ti avvicini al campo base e passi attraverso villaggi sperduti sulle montagne e la gente viene da te a chiederti di guarire i loro bambini, perché sanno, o credono di sapere, che ogni gruppo di scalatori ha nel suo seno un medico.

Secondo me (ma parlo dalla mia vita sedentaria, forse non sono in grado di capire) c’è un altro fantasma, oltre a quello della morte, che vi accompagna in queste vostre incursioni estreme nell’altezza, ed è quello dell’inanità, della difficoltà di trovare un senso, una volta arrivati in cima, che dia giustificazione di tutta la vostra fatica, del vostro affanno.

Credo di aver scritto oltre quattrocento pagine per dare risposta a questo tuo dubbio, che naturalmente sento anch’io…

Leggendone alcune, come quelle di questo bel libro bilingue che è Alessandro delle lucciole, in cui metti in scena Alessandro Magno, lo fai esprimere come in una bella canzone di Vecchioni, che dice pressappoco: «E il più grande conquistò nazione dopo nazione / e quando fu davanti al mare si sentì un coglione / perché più in là non si poteva conquistare niente / e tanta strada per vedere un sole disperato / e sempre uguale e sempre come quando era partito». Sarà la domanda di uno stanziale, come sono certo io, ma non ti è capitato di vivere una vertigine simile a quella di Alessandro, in cima a una montagna?

Beh, premetto che quella canzone piace molto anche a me, che anzi, nel volumetto che hai citato, trascrivo con altre parole lo stesso concetto espresso da Vecchioni. Se devo risponderti, dirò forse una sorta di bestemmia, e cioè che la montagna non significa niente, e che conquistare una vetta è soltanto una scusa per partire, per muoversi, per sottrarsi a un tran tran quotidiano, per capire. Diciamo, in termini molto riassuntivi, che l’Io irrazionale di tutti noi, che ci sospinge in avanti ha qui la sua più grande vittoria. Naturalmente non solo qui: è vero per quelli che viaggiano per anni e anni, per quelli che camminano: molte volte ho detto che più che alpinista mi sento un viaggiatore. L’andare sull’Himalaya è una forma sublimata del viaggiare, del conoscere quanto ci sta attorno e anche quanto in effetti siamo noi.

Non si esaurisce nel racconto delle imprese alpinistiche i motivi di interesse per la tua personalità e per il tuo lavoro. Mi incuriosisce anche, come dicevo all’inizio di questa nostra chiacchierata, il fatto che tu scrivi in una lingua ed io ti leggo in un’altra, anche se poi prendiamo lo stesso autobus o ci bagniamo nel medesimo tratto di mare. Anche se fortunatamente il rapporto tra le due comunità che si dividono questo esiguo territorio non ha più da tempo i risvolti drammatici e talvolta tragici che ha avuto nel passato, mi piacerebbe vedere la realtà triestina con i tuoi occhi di sloveno. Per esempio, c’è stato un episodio sgradevole al tuo ritorno dalla prima spedizione su un ottomila. Vuoi raccontarlo?

In effetti sono stato non solo il primo triestino, ma anche il primo abitante della nostra regione a scalare un ottomila, ma di questo fatto il quotidiano locale in lingua italiana non ha dato la minima notizia, tranne un articoletto di due colonne dove si diceva che la spedizione jugoslava aveva raggiunto la vetta e – senza dire che si trattava di un triestino – metteva anche il mio nome nell’articolo, senza peraltro citare il fatto che anch’io avevo raggiunto la cima. Diciassette anni dopo, quando due triestini sono saliti su un ottomila, c’era in prima pagina un richiamo di quattro colonne cui faceva seguito un’intera pagina all’interno. Fortunatamente ci sono anche persone intellettualmente oneste e così Luciano Santin ha scritto una pagina intera sul Messaggero Veneto, sotto il titolo «Bravissimi, ma non primi» per ripristinare la verità. E così, quando il sindaco (anche allora Dipiazza) ha insignito del sigillo trecentesco del Comune in una cerimonia al Revoltella, i due alpinisti premiati mi hanno invitato, mi hanno fatto salire sul palco e, con grande imbarazzo di Dipiazza, hanno onestamente riconosciuto che, prima di loro, ero arrivato in vetta io. Qualche tempo dopo ho incontrato casualmente il presidente della Regione, allora Tondo, che mi ha chiesto ragione di quella mia esclusione e, indispettito per la cosa, ha provveduto a darmi un riconoscimento, per cui paradossalmente abbiamo due “primi” per il Comune di Trieste ed uno solo per la Regione. Ma si tratta di cose cui annetto un’importanza molto relativa.

Abbiamo parlato soltanto della tua scalata del 1986, ma ce n’è stata un’altra che hai compiuto alla soglia dei cinquant’anni sul Gasherbrum II, a quota 8.035. Toglimi una curiosità: come si usa, arrivato in cima avrai piantato una bandiera. Si trattò di un tricolore bianco rosso e blu oppure bianco rosso e verde?

Si trattò di una bandiera della Pace.