L’orchestrina del “Titanic”

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L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà

degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie

internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati,

alle limitazioni di sovranità  necessarie ad un ordinamento

che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce

le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo.

 

Costituzione, art. 11

 

Nell’ultimo editoriale avevamo manifestato la preoccupazione e l’amarezza per il “sonno della ragione” con il quale l’Europa e il mondo devono misurarsi in conseguenza dell’invasione dell’Ucraina da parte del potente – e prepotente – vicino russo.

Un altro mese è passato da allora, e molti segnali indicano che eravamo stati facili profeti, come quotidianamente sta dimostrando il livello del confronto tra posizioni inconciliabili e l’accanimento dialettico che quotidianamente ci assilla, con punti di vista contrapposti che non intendono riconoscere a nessun costo la dignità intellettuale di quelli che li fronteggiano dall’altra parte del tavolo, facendo vacillare ogni residua fiducia circa l’utilità del confronto.

Le classi dirigenti – non solo quelle politiche – tanto ad Est quanto a Ovest dell’Ucraina non rinunciano a rappresentarsi munite di incrollabili certezze e di visioni contrapposte circa il «che fare» per addivenire a una soluzione negoziata del conflitto. Gli opinionisti di professione, fino a l’altro ieri esperti epidemiologi, sembrano nel frattempo essersi diplomati alla Scuola di guerra, pronti a sparare i loro missili dialettici con testate di supercazzole a grappolo. Tra queste, la citazione dell’articolo 11 della Costituzione, che si limita però alle prime cinque parole, cui dall’altra parte si risponde con accuse di codardia e di intelligenza con il nemico. Sembrano, tutti o quasi, gli orchestrali che sul “Titanic” continuavano a suonare mentre la nave stava per inabissarsi, producendo però, a differenza dei musicisti del transatlantico, soltanto suoni disarmonici e cacofonie.

Intanto, sul terreno, lo scontro sempre più barbarico tra occupati e occupatori, sforna un giorno sì e un altro pure testimonianze, di solito negate o capovolte, di atrocità e crimini di guerra, intere città rase al suolo, popolazioni sospinte lontano dalle proprie case o, più spesso, dalle macerie di quelle che erano state le loro case. E la sofferenza di civili inermi, i cadaveri sul ciglio della strada, i bambini resi muti dalla paura, gli anziani smarriti, tutto questo intollerabile strazio, sarebbe ancora niente, se riflettiamo che tutta questa dolente umanità sta incespicando sull’orlo di un abisso, in fondo al quale si intravede il fantasma di un’estensione del conflitto, addirittura la catastrofe, resasi inopinatamente plausibile, di un conflitto nucleare, la distruzione non soltanto di un grande paese europeo, ma forse di un’intera civiltà. Il titolo di prima pagina sul Manifesto di oggi, 27 aprile, è «roulette russa» e nella sua sintesi mi pare l’efficace, per quanto cruda, rappresentazione di quanto in questi giorni stiamo vivendo.

Un quadro così desolato e inquietante, tuttavia, non dovrebbe indurci a sospendere il giudizio circa chi sia l’aggressore e chi l’aggredito, e su chi ha tenuto in non cale il principio di inviolabilità dell’integrità territoriale di uno stato estero, come pure del suo diritto a scegliersi in autonomia alleanze e appartenenze nel contesto internazionale. Comunque vada a finire.

Finisse male, non sarebbe la prima volta nella storia che una livida vittoria arride a chi dispone della forza ma non della ragione, ma anche in questo deprecabile caso, ove fossimo tra i sopravvissuti, dovremmo avere la lucidità di continuare a ritenere che nei rapporti internazionali l’umanità deve darsi e deve rispettare delle norme che impediscano o almeno limitino l’aggressività di uno stato nei confronti di un altro.

Se poi iniziassimo ad affermare a voce alta che il nazionalismo è un cancro che divora la nostra civiltà e la nostra cultura avremmo fatto un altro, notevole passo in avanti.