L’ONORE DI RACCONTARE IL MONDO
fotografia | Michele De Luca | ottobre 2015 | Ponte rosso N° 5
A Forlì e Venezia il fotografo americano Steve McCurry
Michele De Luca
“Ho imparato ad essere paziente. Se aspetti abbastanza, le persone dimenticano la macchina fotografica e la loro anima comincia a librarsi verso di te; e ancora, “il solo viaggiare e approfondire la conoscenza di culture diverse mi procura gioia e mi dà una carica inesauribile”. Sono parole di Steve McCurry (Philadelphia, 1950), riconosciuto protagonista del fotogiornalismo contemporaneo internazionale, che ci fanno entrare nel suo mondo fotografico, fatto di ritratti in cui da vero maestro dell’immagine ha saputo racchiudere un universo complesso ed estremamente vario di storie, emozioni, gioie, paure, sconforto, speranza, e di una inesauribile “curiosità” verso gli angoli più lontani e sconosciuti, in un continuo girovagare con la sua fotocamera e facendo così del viaggio, come un Odisseo dei nostri tempi, una scelta ed una dimensione di vita.
Dopo aver studiato cinema e storia alla Pennsylvania State University, McCurry decide di recarsi per un reportage in India; vi si ferma due anni e dopo la pubblicazione del suo primo importante lavoro sull’Afghanistan comincia a collaborare alle più prestigiose riviste, come Time, Life, Newsweek, Geo e National Geographic. Inviato nei punti “caldi” del pianeta, si spinge in prima linea a rischio della vita per dare una testimonianza diretta dai fronti di guerra, da Beirut alla Cambogia, dal Kuwait all’ex Jugoslavia; membro dell’agenzia Magnum dal 1985, ha vinto i più prestigiosi premi, tra cui alcuni “World Press Photo Awards”; suo è il celeberrimo servizio sulla ragazza divenuta icona simbolo del conflitto afgahano sulle pagine del National Geographic.
La sua ultra-trentennale opera di reporter viene contemporaneamente ripercorsa (e doverosamente celebrata) in due grandi mostre, a Forlì ai Musei di San Domenico (“Icons and Women”), e a Venezia, alle Tese dell’Arsenale Nord (“From These Hands: A Journey Along The Coffee Trail”), che ci accompagnano nell’insieme in uno straordinario racconto, un’avvincente sequenza di immagini che, ci dice il fotografo, “evoca l’ampio mosaico dell’esperienza umana e i miei incontri casuali con sagome e ombre, acqua e luce. Ho voluto trasmettere al visitatore il senso viscerale della bellezza e della meraviglia che ho trovato di fronte a me, durante i miei viaggi, quando la sorpresa dell’essere estraneo si mescola alla gioia della familiarità”. Ma c’è anche profonda partecipazione umana e senso del dolore, al di là del “distacco” professionale del foto-giornalista, in questi scatti profondi, drammatici, ma anche liberatori, in cui è narrata la storia dei popoli più sfortunati; che invitano ad una meditazione profonda sugli squilibri tra le realtà della terra e suscitano, perché no, un sentimento di sincero, quanto impotente, “rimorso” nei loro confronti.
“La fotografia mi dà l’onore di poter raccontare il mondo”, dice McCurry: con i suoi inarrivabili scatti, talora rasserenanti con le “cose belle dal mondo” che rappresenta attraverso immagini a colori superlative, ma altre (tantissime) volte inquietanti e coinvolgenti per il dolore e la sofferenza che offre il nostro pianeta, che da par suo sa raccontare con viva partecipazione e solidarietà umana. E il suo mondo, che poi è anche il “nostro” (e le sue immagini ce lo fanno veramente sentire come tale), è quello delle donne in Afghanistan, dei monaci buddisti, delle vittime della Guerra del Golfo, dei bambini soldato e dei villaggi indiani devastati dai monsoni, descritto con uno “sfoggio” cromatico che è una festa per gli occhi, attraverso i quali giunge direttamente e profondamente nel cuore: il rosso degli abiti dei monaci buddisti, il blu delle acque profonde dello Sri Lanka, l’arancione delle barbe tinte con l’henné dei nomadi indiani e, naturalmente, il verde degli occhi di Sharbat Gula, la bambina afghana che Steve McCurry ha incontrato nel 1984, in un campo di rifugiati a Peshawar, in Pakistan. Quella foto sarebbe diventata la copertina del numero di giugno 1985 della rivista “National Geographic” e quindi il più iconico tra tutti gli scatti del fotografo americano. La sensazione che si ha davanti alle sue foto è di essere estremamente coinvolti e “associati” in quella che è la percezione delle persone e dei luoghi, in cui si esalta quello che poi è il suo personale e originale modo di intendere e di praticare la fotografia, che per lui ha sempre rappresentato un ottimo mezzo per esplorare il mondo e per apprezzarne anche i minimi dettagli; “la macchina fotografica – suole dire – ci permette di entrare in uno stato di meditazione, di estrema consapevolezza e sensibilità nei confronti del mondo che ci circonda”. Della qual cosa ci rende assolutamente e convintamente partecipi.
Nella mostra di Forlì, come ricorda lo stesso titolo, l’occhio del fotografo è particolarmente puntato sulla figura e sul mondo delle donne, che oltre all’innegabile e fondamentale ruolo che hanno nella società e nella famiglia, “ci regalano bellezza”. Il suggestivo allestimento, che Peter Bottazzi ha concepito esclusivamente per questa mostra, invita ad un percorso affascinante, in cui l’universo femminile sembra venirci incontro con i suoi sguardi, dignitosi, fieri o struggenti, che ci coinvolge con la sua dimensione collettiva, dove si mescolano età, culture, etnie, che McCurry ha saputo cogliere con straordinaria intensità.
La mostra veneziana (che non può non richiamare alla mente la recente, straordinaria esposizione, sullo stesso tema, di Sebastião Salgado alla Fondazione Bevilacqua La Masa, sempre nella città lagunare) vede invece protagonisti McCurry e la sua passione decennale per una storia antica, legata a una materia prima dal grande valore umano, economico, geografico: il caffè è al centro di una rassegna densa, composta di una sessantina di scatti che uniscono idealmente volti e territori agli antipodi del mondo. Brasile, Colombia, Etiopia, India, Tanzania, Vietnam e Yemen sono solo alcuni dei Paesi visitati da McCurry, con l’intento di ritrarre un genere alimentare prezioso, non confinabile nei limiti del prodotto finito. Anzi, intorno a quello che Giuseppe Verdi definì “il balsamo del cuore e dello spirito” ruotano tra cronaca e storia, la civiltà, la cultura e – soprattutto – il lavoro dell’uomo.
Honduras, © Steve McCurry
Peshawar, Pakistan 1984 © Steve Mc Curry