L’estate del nostro sconcerto
Editoriale | Il Ponte rosso N° 36 | luglio-agosto 2018
È difficile parlarne ora, all’indomani dei primi funerali delle vittime, con il rischio di scadere in un discorso strappalacrime, o in una scomposta denuncia circa i fatti e misfatti che sono continuamente richiamati all’attenzione dell’opinione pubblica, spesso per scopi smaccatamente propagandistici di questa eterna campagna elettorale. Pure qualcosa si dovrà dire del maledetto viadotto di Genova, se non altro perché il richiamo di ogni altro argomento impallidisce sprofondando in un mare di futilità al confronto con la strage di Ferragosto, col martirio annunciato di una città che certo stenta molto a trovare il filo di Arianna che può farla uscire dal labirinto di difficoltà connesse alla crisi economica, all’assetto del territorio e ora a questa formidabile mazzata.
Gli Italiani, credo i più assai sconcertati, sono venuti a conoscenza nei primi giorni di una serie impressionante di informazioni relative agli allarmi circa la stabilità del manufatto che hanno preceduto il suo cedimento strutturale, altre sull’opposizione sorda (e cieca, più che altro) al progetto della cosiddetta Gronda, del quale si è iniziato a parlare nel 1984, che avrebbe deviato gran parte del traffico, soprattutto pesante, dal ponte Morandi, altre ancora sui dati di bilancio della Società Autostrade, che si è rivelata per i concessionari una specie di gallina dalle uova d’oro, protetta da un contratto blindato che di fatto rende non economicamente conveniente il recesso da parte dello Stato.
Oltre a questo, anche altre considerazioni di carattere più generale emergono con lampante evidenza dalla sciagura di Genova. Per esempio che non è affatto assodato che la gestione di un servizio affidata ai privati funzioni meglio che se fosse affidata alla mano pubblica. Oppure che il trasporto per ferrovia dovrebbe essere privilegiato rispetto a quello su gomma, considerato l’affollamento della rete autostradale (quella stradale è anche peggio). In assenza di una seria politica della mobilità, che non si esaurisca nel costruire nuove strade o allargare di una corsia quelle esistenti, non otterremo che ulteriori consumi del suolo, oltre a deturpare il paesaggio senza risolvere il problema, ma limitandoci a differirlo nel tempo. Sono tutti discorsi che si sentono da almeno trent’anni, ma che continuano ad apparire inconfutabili quanto disattesi.
Sconcertante davvero il comportamento dei politici, che nemmeno nella circostanza drammatica, coi morti in parte ancora insepolti, in parte da ancora recuperare sotto le macerie, non sono riusciti a trovare per un solo istante la via di una composta reazione comune agli eventi, continuando ad azzuffarsi tra loro. Fin dalle prime ore, si è ritenuto di riconoscere nella concessionaria il solo responsabile del disastro, imbastendo un processo televisivo e condannandola senza appello. Delle responsabilità di Anas e Ministero, che avrebbero dovuto controllare gli interventi di manutenzione non si è fatto cenno. Le dichiarazioni del presidente del Consiglio, un uomo di legge che si propone come «avvocato degli Italiani» secondo le quali «noi non possiamo attendere i tempi della giustizia penale» costituiscono soltanto la premessa di quello che dobbiamo attenderci: un’inconcludente fastidioso baccano già anticipato dai Masaniello governativi, che – tra insulti e invettive – hanno individuato nell’urgenza della rescissione del contratto con Autovie la linea maestra sulla quale muoversi. Con ogni probabilità in direzione di interminabili liti processuali in sede civile, che presumibilmente non approderanno a nulla, oppure condurranno a un abnorme erogazione di ulteriore denaro pubblico al concessionario. Intanto possono andare avanti con la loro campagna elettorale permanente, basata sulla rozzezza di ragionamenti e argomentazioni da Bar Sport.
Quello che resta da chiedersi è cos’ha fatto questo sinistrato Paese per meritarsi una classe dirigente di questo così infimo profilo.
Fortuna che ci restano i Vigili del fuoco!