L’esecutore materiale
Il Ponte rosso N°92 | maggio 2023 | Nicola Coccia | storia
L’assassino Amerigo Dumini, il 10 giugno 1924, coordinò i sicari che uccisero Giacomo Matteotti, deputato e segretario del Partito Socialista Unitario
Dopo la guerra fu finalmente condannato per omicidio premeditato, ma scontò soltanto sei anni, grazie all’amnistia di Togliatti
di Nicola Coccia
Il capo della polizia segreta di Mussolini, la Ceka, ha quasi sempre abitato a Firenze. Quasi sempre, ma non sempre. Negli altri periodi era in carcere, al confino, oppure impegnato a violare i dieci comandamenti. Compreso il quinto che raccomanda di non uccidere. Ma per Amerigo Dumini era un biglietto da visita. Si presentava, infatti, così: «Piacere Dumini, otto omicidi». Piano, piano gli “otto omicidi” diventarono nove, poi undici e infine addirittura diciotto. Fra questi c’era anche quello del deputato Giacomo Matteotti, avvocato, segretario del Partito Socialista Unitario, molto legato alla Toscana dove aveva incontrato per la prima volta la poetessa Velia Titta, sorella del famoso baritono Titta Ruffo. Matteotti e Velia si sposarono. Nel gennaio1916 la coppia era in viaggio di nozze a Firenze.
La fama di Dumini raggiunse presto anche coloro che non lo conoscevano direttamente. Emilio Lussu, azionista, perseguitato politico, parlamentare nel 1921 e nel ’24, scrive così nel suo libro Marcia su Roma e dintorni: «Sei mesi prima Dumini si era battuto in duello con il giornalista Giannini, socialista, che egli aveva fatto aggredire in un teatro di Roma. Giannini era uno schermidore abilissimo, e Dumini durante lo scontro, preso dal panico, era fuggito. Negli ambienti fascisti passava per intrepido. Era molto celebre e, fra gli assassini politici, teneva il primato assoluto. La sua azione più brillante l’aveva compiuta in pubblico, a Carrara. A causa di un garofano rosso, egli aveva schiaffeggiato una ragazza. La madre e il fratello avevano fatto delle rimostranze. Egli aveva risposto freddando entrambi a colpi di pistola. Ora viveva a Roma, al servizio dell’Ufficio Stampa del presidente del Consiglio. Aveva stipendio lauto e regolare e viaggiava in prima classe, attorniato da segretari particolari».
Il padre di Dumini, Adolfo, era un pittore nato e vissuto a Fiesole. La madre, Jessie Wilson, era nata in Gran Bretagna e a Firenze insegnava inglese. Il loro primo figlio, Alberto, nacque a Firenze nel 1892. Poco dopo i tre si trasferirono negli Stati Uniti dove Jessie aveva un fratello ingegnere. E a Saint Louis, nel Missouri, nacque Amerigo Dumini. Era il 3 gennaio 1894. Quattro anni dopo, nel dicembre 1898, la famiglia rientrò a Firenze. E a Firenze nacque la terza e ultima figlia della coppia: Florence, forse un omaggio a Firenze, anche se in casa la chiamarono sempre Flora. Era la primavera del 1901.
Amerigo Dumini partecipò volontario alla prima guerra mondiale. Fondò a Firenze il fascio al quale si iscrisse anche Italo Balbo, appena laureato al Cesare Alfieri. Nel 1921 fondò e diresse la Sassaiola fiorentina, un settimanale di “guerriglia ardita”. In quello stesso anno sei uomini assaltarono, sparando, la sede dell’Sms di Rifredi e dopo averla devastata la incendiarono. I socialisti l’accusarono, lui negò. Il 20 luglio a Sarzana alla testa di quattrocento squadristi tentò di liberare un fascista. I carabinieri furono costretti a sparare. Per terra rimasero quindici morti. Il 10 dicembre fu accusato di un nuovo omicidio a Pian Vallico. «Nell’agosto del 1923 venne arrestato a Trieste mentre si accingeva a vendere al governo di Belgrado, nonostante che la Jugoslavia venisse annoverata tra i paesi nemici, un grosso quantitativo di armi assegnatogli dalla Direzione generale di Artiglieria. Anche se la copertura finanziaria – scrive Mauro Canali nel Delitto Matteotti – gli era stata data dall’amministratore delegato della Banca Adriatica di Trieste, è assai dubbio che un oscuro squadrista, quale appariva ufficialmente Dumini, avesse potuto ottenere da un banchiere un fido così rilevante e dal ministero della Guerra, con il parere favorevole del ministero del Tesoro, uno stock così cospicuo di armi, comprendenti alcune centinaia di migliaia di fucili e proiettili, in quantità tale da riempire la stiva di una nave». Dumini rimase in carcere una sola notte. La mattina dopo era già tornato in libertà con tanto di scuse. Il Popolo d’Italia, giornale fondato da Mussolini, si rallegrava, in un corsivo, che «l’amico Dumini, valoroso ex combattente di vecchio e provato patriottismo» fosse sollevato dalla terribile e ingiusta accusa. La figura di Dumini usciva “dal triste episodio pura e intatta”.
Nel marzo del 1924 Venne inviato in Francia per capire chi aveva ucciso Nicola Bonservizi, corrispondente da Parigi del Popolo d’Italia, ma venne ferito a pistolettate e costretto a rientrare a Milano. La sua “carriera” fu fulminante. Diventò prima il braccio destro di Cesare Rossi, capo ufficio stampa del Duce, e poi capo della Ceka, la polizia segreta che rispondeva solo ai vertici del partito fascista.
Il 30 maggio 1924 Matteotti, alla Camera, sebbene interrotto decine di volte denunciò i ripetuti pestaggi che avevano impedito agli aventi diritto di andare a votare liberamente il 6 aprile. Quelle violenze consentirono a Mussolini di ottenere il 64;9% dei voti e 374 seggi. Ma Matteotti stava per rendere pubblica anche l’operazione con la quale il regime tentò di dare in concessione i diritti per la ricerca petrolifera in Italia a un colosso americano. Dietro l’affare correvano tangenti. Il 5 giugno, improvvisamente, gli venne rilasciato il passaporto che aveva sempre richiesto, ma che gli era stato sempre negato. Lo ottenne per andare a Vienna al congresso internazionale dei socialisti. Il regime pensava di colpirlo fuori dall’Italia, come succederà per i fratelli Rosselli. Per questo il potentissimo Dumini fece liberare dal carcere di Poggioreale, Otto Thiershwall, che chiamavano il russo, ma in realtà era un austriaco di lingua tedesca, il quale doveva pedinare Matteotti in Austria. Ma all’ultimo momento il segretario del Partito Socialista rinunciò al viaggio. Così Dumini studiò un piano alternativo. Telegrafò ad Albino Volpi a Milano: «Pregoti partire immediatamente. Necessita la tua persona per definizione contratto pubblicità». Firmato: «Gino D’Ambrogi». Volpi era pronto a tutto. Alcuni anni prima la Corte di assise di Milano lo aveva assolto dall’accusa di aver ucciso un socialista grazie alla testimonianza di Benito Mussolini che gli aveva fornito un alibi. Oltre a Volpi vennero scelti: Giuseppe Viola, Amleto Poveromo e Augusto Malacria.
Nel pomeriggio del 10 giugno 1924 Matteotti, alla vigilia del suo discorso alla Camera sull’affare del petrolio e sulla corruzione che coinvolgeva il governo, venne sequestrato mentre a piedi camminava sul Lungotevere Arnaldo Da Brescia diretto a Montecitorio. Una “Lancia”, guidata da Dumini, lo aveva affiancato. Dall’auto erano scese due persone che lo avevano afferrato cercando di trascinarlo nella vettura. Matteotti tirò un pugno a uno dei due aggressori costringendo così un terzo uomo a uscire dalla Lancia. In tre lo picchiarono e lo spinsero dentro a forza. Matteotti reagì. Gridò. Gettò il suo tesserino di deputato dal finestrino, per lasciare una sua traccia. L’assassinarono sui sedili posteriori con una serie di coltellate. Morì quello stesso giorno, dopo una lunga agonia. Matteotti aveva trentanove anni e tre figli: Gian Carlo di sei, Matteo di tre e Isabella di due.
Alcuni testimoni che erano sul lungotevere fornirono alla polizia la targa della vettura che risultò essere stata prelevata dal garage del Corriere Italiano, giornale per il quale lavorava anche Dumini. Le indagini furono condotte dal magistrato Mauro Del Giudice che individuò subito in Dumini il maggiore responsabile del rapimento. L’Amerikano, come veniva chiamato qualche volta Dumini, venne arrestato due sere dopo alla stazione Termini con tre valigie. In una c’erano i pantaloni di Matteotti tagliati in 20 pezzi, forse perché ne voleva fare dei trofei. Il suo corpo invece venne cercato invano per due mesi. Il ritrovamento sembrò pilotato. Il 12 agosto venne trovata la giacca del segretario del Partito Socialista sotto un ponticello nella tenuta della Quartarella, nel comune di Riano, a 25 chilometri da Roma, in un terreno di proprietà di un deputato fascista. I periti dissero che non poteva essere lì da due mesi. Era asciutta, ben conservata, con tracce di ripiegatura. Quattro giorni dopo un brigadiere dei carabinieri con la cagnolina Trapani trovò la tomba di Matteotti, sotto una grande quercia. La fossa aveva una profondità di una quarantina di centimetri ed era lunga poco più di un metro. Era stata questa la vera tomba di Matteotti? L’omicidio non è stato mai ricostruito compiutamente. Oltre alla Ceka di Dumini il giorno dell’omicidio, c’era una squadra di appoggio mai identificata. La sera del delitto, infatti, passarono da Ronciglione due automobili.
Il processo farsa, come lo definì Turati, si svolse a Chieti fra il 16 e il 24 marzo 1926. Fra gli avvocati di parte civile c’era il deputato socialista fiorentino Ferdinando Targetti. Dei cinque imputati – difesi addirittura dal segretario del Partito Fascista, Farinacci – due vennero assolti (Viola e Malacria) e tre (Dumini, Volpi e Poveromo) condannati per omicidio preterintenzionale a 5 anni, undici mesi e venti giorni di cui quattro condonati con un’amnistia. Dumini e complici tornarono in libertà due mesi dopo. Uscito dal carcere l’Amerikano pretese dal partito premi e ricompense. Venne arrestato, condannato e graziato più volte. Il regime, che lo voleva lontano dall’Italia, lo spedì in Somalia, ma anche qui venne incarcerato e rispedito in Italia e poi inviato al confino alle Tremiti. Nel 1934 venne inviato in Cirenaica. Nel ’41 mentre era ancora in Africa fu catturato come spia e condannato a morte dai britannici. Lo raggiunsero 17 colpi, ma non morì. Appena fu in grado di rimettersi in piedi raggiunse la Tunisia e poi l’Italia. Con lo stipendio di Mussolini e i suoi traffici Dumini riuscì a comprare un bel villino in via Pietro Tacca a Firenze. Dopo la caduta del fascismo venne arrestato a Riva del Garda, a Roma, a Firenze dove finì alle Murate e nel 1945 a Piacenza. Nei suoi confronti fu riaperto il processo per il delitto Matteotti. Fu riconosciuto colpevole di omicidio premeditato e condannato all’ ergastolo nell’aprile 1947. Dopo sei anni fu scarcerato per l’ amnistia Togliatti. Morì nel 1967, a 73 anni, nella sua casa di Roma, mentre tentava di cambiare una lampadina. Non lo avevano ucciso il carcere né il plotone di esecuzione, ma solo una piccola scarica elettrica.
Amerigo Dumini