L’enciclica di Francesco
documenti | Il Ponte rosso N° 62 | nov.20 | Paolo Iannacone
Un documento sconcertante e potente, tanto che qualcuno l’ha definito «una nuova Pacem in Terris»
di Paolo Iannaccone*
San Francesco: “fraternità aperta”, “cuore senza confini” capace di andare al di là delle barriere della geografia e dello spazio. È da questa testimonianza che prende avvio Fratelli Tutti (da ora FT), la terza lettera enciclica del primo vescovo di Roma che porta il nome del poverello d’Assisi, pubblicata il 3 ottobre scorso, vigilia della sua festa. Nato nei mesi del lockdown, è un documento-sintesi dei primi otto anni di pontificato, tanto corposo (287 paragrafi) quanto semplice nel linguaggio e comprensibile oltre che condivisibile da parte di uomini e donne di buona volontà, che hanno a cuore le sorti dell’umanità. Un’enciclica al medesimo tempo sconcertante e potente, tanto che qualcuno l’ha definita «una nuova Pacem in Terris»: in un mondo che, agli inizi degli anni ’60, correva verso destini di guerra – con la crisi dei missili a Cuba si era, infatti, andati a un passo dalla terza guerra mondiale –, Giovanni XXIII ritenne di scrivere quell’importante documento ponendo quattro punti cardine per orientare l’umanità sul cammino della pace: la centralità della persona inviolabile nei suoi diritti; l’universalità del bene comune, il fondamento morale della politica, e la forza della ragione e il faro della fede.
Il nostro tempo è diverso, anche se anch’esso presenta “le ombre di un mondo chiuso” e senza quella bussola che orienti verso un futuro più bello e degno per tutti. Un mondo, il nostro, segnato da una “terza guerra mondiale a pezzi” tra il terrorismo di stampo religioso e il risorgere di nazionalismi xenofobi, tra il “colonialismo culturale” e la guerra ai poveri più che alle povertà; un mondo, il nostro, caratterizzato dal relativismo culturale e da sempre più gravi disparità economiche aggravate dall’attuale pandemia, da una società “malata” che mira a costruirsi «voltando le spalle al dolore» (FT 65) e facendo «oggetto di scarto gli stessi esseri umani» (FT 19). A fronte di questa lunga e puntuale disamina del primo capitolo, papa Francesco, in linea con la Pacem in Terris, ne riprende gli assi portanti attualizzandoli e promuovendo un cammino di speranza, che è «anelito di pienezza, di vita realizzata, di un misurarsi con ciò che è grande» e, al medesimo tempo, «audace» perché «sa guardare oltre la comodità personale, le piccole sicurezze e compensazioni che restringono l’orizzonte, per aprirsi a grandi ideali che rendono la vita più bella e dignitosa» (FT 55).
Si badi bene, quella che il lettore trova non è una proposta universalista autoritaria e astratta, irenistica e filantropica, utopica e irrealizzabile. Facendo presa sulla “responsabilità” (parola che compare ben diciotto volte nel testo), invita a quell’amore che spinge ad uscire da sé stessi per andare incontro all’Altro e agli altri, quelli più vicini e quelli più lontani; con profonde radici nel Vangelo di Gesù Cristo, ha a cuore l’ambizioso obbiettivo di cambiare il paradigma dell’umano, trasformando una società di “soci” in una comunità di “fratelli” capaci di quell’amicizia sociale edificata sul dialogo, che riconosce l’altro nella sua alterità e si spende per esso e per i suoi inalienabili diritti.
Uno degli “altri” che Bergoglio ha sempre avuto a cuore, sin da vescovo di Buenos Aires e, da papa, dal suo primo viaggio a Lampedusa, sono i migranti: una volta ricordato che «l’ideale sarebbe evitare le migrazioni non necessarie», riafferma pure con chiarezza che «i nostri sforzi nei [loro] confronti si possono riassumere in quattro verbi: accogliere, proteggere, promuovere e integrare. Infatti, non si tratta di calare dall’alto programmi assistenziali, ma di fare insieme un cammino attraverso queste quattro azioni, per costruire città e Paesi che, pur conservando le rispettive identità culturali e religiose, siano aperti alle differenze e sappiano valorizzarle nel segno della fratellanza umana» (FT 129). Il motivo è che «l’arrivo di persone diverse, che provengono da un contesto vitale e culturale differente, si trasforma in un dono, perché quelle dei migranti sono anche storie di incontro tra persone e tra culture: per le comunità e le società in cui arrivano sono una opportunità di arricchimento e di sviluppo umano integrale di tutti» (FT 133). Un’ulteriore alterità considerata dal pontefice è «l’altro paese»: in un mondo globalizzato è importante l’aiuto reciproco tra paesi in quanto quel «fecondo interscambio» va a vantaggio di tutti, perché «oggi o ci salviamo tutti o nessuno si salva» (FT 137-138).
È questo atteggiamento esistenziale a farci divenire “artigiani della pace”. È il tema dei capitoli sesto e settimo, che trattano anche dell’impossibilità che esista una “guerra giusta” e dell’inammissibilità della pena di morte sia sul piano penale sia su quello morale, così come del valore della memoria e del perdono: «Quanti perdonano davvero non dimenticano, ma rinunciano ad essere dominati dalla stessa forza distruttiva che ha fatto loro del male» (FT 251). Pensiamo a quanto questo possa valere anche per la nostra terra che porta ancora ferite non cicatrizzate.
Per traghettare da “soci” a fratelli”, il passaggio chiarificatore è la parabola evangelica del buon Samaritano (Lc 10,25-37) che nel secondo capitolo viene sviscerata e posta come prospettiva di interpretazione dei tempi che stiamo vivendo e come faro per guidare la direzione dei nostri passi. Della famosa parabola vengono messi in luce i protagonisti: dall’abbandonato sulla strada ai briganti che lo depredano di tutto lasciandolo mezzo morto, da chi gli passa accanto con disinteresse e indifferenza al buon samaritano che «gli ha donato vicinanza, lo ha curato con le sue stesse mani, ha pagato di tasca propria e si è occupato di lui… soprattutto gli ha dato il proprio tempo» (FT 63). Quattro parole formano la drammatica domanda centrale del documento «Con chi ti identifichi?», che diventa una denuncia sul fatto che «siamo cresciuti in tanti aspetti, ma siamo analfabeti nell’accompagnare, curare e sostenere i più fragili e deboli delle nostre società sviluppate. Ci siamo abituati a girare lo sguardo, a passare accanto, a ignorare le situazioni finché queste non ci toccano direttamente» (FT 64). Vengono così a essere smascherati i meccanismi di autogiustificazione e disimpegno morale che molte volte ci rendono immobili, soprattutto di fronte a quell’oceano di bisogni e di soprusi di persone e popoli feriti, dimenticando la grande lezione che ci ha lasciato Madre Teresa di Calcutta, che affermava, sì, come quello che noi possiamo fare sia solo una goccia nell’oceano, ma incalzava concludendo che, se non lo facessimo, l’oceano avrebbe una goccia in meno. Alla fin fine, «vivere indifferenti davanti al dolore non è una scelta possibile; non possiamo lasciare che qualcuno rimanga “ai margini della vita”» (FT 68).
Uno dei passaggi più efficaci della rilettura della parabola è quando si afferma che «anche il buon samaritano ha avuto bisogno che ci fosse una locanda che gli permettesse di risolvere quello che lui da solo in quel momento non era in condizione di assicurare» (FT 165): un amore “personale” che si fa “politico”, di “alleanza” con gli altri e con le istituzioni affinché siano stimolate a giungere là dove il denaro non compra e il mercato non arriva. Non è un caso dunque che al centro del documento si tratti de “La migliore politica”, quella politica – “una delle forme più alte di carità”, ricordava Paolo VI – capace di occuparsi veramente della “polis” con lungimiranza e fecondità, promuovendo il bene comune e permettendo ad ogni uomo quel necessario e dignitoso “sviluppo integrale” (questo “diritto” è richiamato 15 volte).
L’ultimo capitolo, l’ottavo, mette in luce il ruolo delle religioni che, «a partire dal riconoscimento del valore di ogni persona umana come creatura chiamata ad essere figlio o figlia di Dio, offrono un prezioso apporto per la costruzione della fraternità e per la difesa della giustizia nella società» (FT 271). E quando questo non avviene? «Come credenti ci vediamo provocati a tornare alle nostre fonti per concentrarci sull’essenziale: l’adorazione di Dio e l’amore del prossimo, in modo tale che alcuni aspetti della nostra dottrina, fuori dal loro contesto, non finiscano per alimentare forme di disprezzo, di odio, di xenofobia, di negazione dell’altro. La verità è che la violenza non trova base alcuna nelle convinzioni religiose fondamentali, bensì nelle loro deformazioni» (FT 282).
Concludendo, ritengo che anche questo testo trasudi la capacità dell’autore di andare al cuore della vita, indicando sentieri non certo facili, ma necessari e da percorrere insieme con coraggio, responsabilità e determinazione al fine di essere nel piccolo protagonisti di quel cambiamento che in tanti – credenti e non – vogliamo vedere. Per non smettere di sperare.
- Paolo Iannaccone, giornalista pubblicista già condirettore al settimanale cattolico Vita Nuova e già conduttore della trasmissione radiofonica della Diocesi di Trieste “Incontri dello Spirito” diffusa in ambito regionale in collaborazione con il Tgr del Friuli Venezia Giulia, è attualmente parroco nella periferia di Trieste nel popoloso quartiere di Borgo San Sergio
Papa Francesco
Fratelli tutti
Lettera enciclica
sulla fraternità e l’amicizia sociale
Libreria editrice vaticana 2020
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