LELIO, TUTTA UN’ALTRA MUSICA
Il Ponte rosso n. 97 | novembre 2023 | profili | Roberto Curci
PROFILI
Lelio, tutta un’altra musica
Luttazzi riletto a cent’anni dalla nascita: uno scrittore che vuota il sacco su di sé
di Roberto Curci
Musicista, compositore, pianista, cantante, direttore d’orchestra, discografico, presentatore radiofonico e televisivo, showman, attore, regista… Può bastare? E invece no, poiché Lelio Luttazzi (è di lui che si parla, a cent’anni tondi dalla nascita) è stato anche scrittore, e non molti lo sanno. Non solo nel senso del brillante inventore di canzoni quali Vecchia America, Una zebra a pois, Souvenir d’Italie e di quell’esordiente Giovanotto matto che decise della sua esistenza, ma nel senso imprevedibile – per noi e perfino per lui – dell’autore di singolari romanzi-memoriali, due dei quali ancora chiusi in un cassetto che, ci si augura, la vedova Rossana si deciderà prima o poi a spalancare.
Scrittura come conforto, scrittura come terapia, scrittura come salvezza. Questo è stato, per Luttazzi, il mettere sé stesso nero su bianco. «Scrivere mi rende felice. Forse ho trovato il mio vero modo di essere. Almeno finché sto qui»: parole vergate il 29 maggio 1970, quando il “qui” si riferiva alla Cella d’Isolamento 13 di Regina Coeli (un metro di larghezza, tre di lunghezza, cinque di altezza e un angusto lucernaio) dov’era recluso e dove sarebbe rimasto per 27 giorni, accusato – assieme all’amico Walter Chiari – di spaccio di stupefacenti.
La surreale vicenda è ben nota e si appaia a quella che, più avanti, vide assurdamente accusato, imprigionato, processato e condannato (poi assolto in appello) un altro notissimo uomo di spettacolo, Enzo Tortora. Ma Luttazzi, in quell’anfratto carcerario, scoprì la scappatoia della scrittura: un diario quotidiano, che alla sua liberazione e nello stesso 1970 sarebbe diventato un libro, edito da Mursia, con prefazione dell’amico Giuseppe Berto. Titolo: Operazione Montecristo.
Si legge a tutt’oggi con viva partecipazione emotiva questo (ormai introvabile) instant-book. Solo con sé stesso, guardandosi allo specchio come mai prima, Luttazzi riesce a vincere la disperazione e il senso dell’ingiustizia patita per le traveggole di un certo Pubblico Ministero. Ne vien fuori l’uomo, con tutte le sue vulnerabilità fisiche e psicologiche, con le sedimentazioni di un’infanzia e di un’adolescenza difficili, con la complessità contraddittoria (bipolare?) di un temperamento schivo, riservato e rispettoso, tendente alla depressione («neurovegetativo-vagotonico» si definisce), ma capace di slanci di coraggio e di orgoglio, di un’empatia che si esprime, ad esempio, nei rapporti perfino affettuosi con le guardie carcerarie, di commozioni travolgenti nel senso di umana solidarietà per i deboli, gli svantaggiati, gli sfortunati (compresi gli innocenti come lui, e come lui prigionieri).
Sul vero Luttazzi, non sul popolarissimo personaggio radiotelevisivo, si apprendono così tante cose, autoconfessate: la fatica, appunto, di indossare la maschera del “bravo presentatore”, forzando la sua indole umbratile, malinconica («pensavo a quanto si sta bene mentre si scrive […], a quanto non me ne frega niente del mestiere che faccio, della Rivista, del Varietà, della Musica Leggera, che non sia quella specifica che piace a me e irrita le masse»).
E ancora: il tormentone dell’Eros, cui sarebbe stato dedicato un altro libro, uscito però postumo (2012), di cui diciamo più sotto («Di fronte alle ragazze – ma che dico ragazze: ragazzine, ma che dico ragazzine: bambine; fui preda dell’Eterno Femminino fin dalla prima infanzia – il mio esibizionismo si scatenava in tutta la sua violenza, incontrollato, impudico e caricaturale»).
Schietto e disinibito, Operazione Montecristo, dunque l’unico libro firmato Luttazzi pubblicato in vita, si chiude però con una nera nota di pessimismo. Tanto la scrittura lo ha salvato durante la detenzione, quanto il successivo rimuginare sul proprio caso lo prostra nei mesi successivi e segna l’inizio di un buio tunnel, nella consapevolezza che la «fetida storia non avrà mai un lieto fine». «Io non sono mai stato normale, né felice, né sano. Il vecchio Oblomovismo ha avuto la meglio. Il latente ‘desiderio di morte’ è emerso dal mio subconscio, come tante altre volte. Più di tante altre volte».
E tuttavia alla scrittura Luttazzi tornerà, e sarà – a sorpresa – un tuffo spericolato (ma lo si apprenderà appena due anni dopo la sua dipartita) nell’ossessiva dimensione erotica che lo perseguita dalla tenera infanzia. L’erotismo di Oberdan Baciro (nei Coralli di Einaudi!), a cominciare dal buffo titolo, è un condensato esplosivo di auto-ironia tramite controfigura, di esplicito, spudorato e grottesco percorso di desiderio (perennemente insoddisfatto) della femmina, di dedizione consolatoria all’autoerotismo, di conflitto generazionale con la madre-tiranna, la maestra Sidonia Semani (ex Sedmak), con la scuola elementare di Prosecco/Prosek come primo scenario e con il gustoso condimento di ampie parti in puro dialetto triestino, comprese parolacce e imprecazioni.
Che Lelio non l’abbia voluto vedere stampato, è plausibile. Fatto sta che oggi stampato è: e, a prescindere da ogni vero o finto perbenismo, è – con tutti i suoi riferimenti esplicitamente autobiografici – stupefacente per franchezza e freschezza. E molto spesso esilarante.
La Donna, l’Amore, la Morte. I chiodi fissi di Luttazzi ritornano nel terzo libro a lui finora intestato, La rabbia in smoking (Luglio Editore, 2016): una silloge di racconti, di appunti per possibili sceneggiature, di “progetti”, sgranati dal 1971 (il racconto più lungo, La villa di campagna, utilizzato come canovaccio del film L’illazione, poi diretto e interpretato da Luttazzi stesso) al 1991, poco prima del definitivo rientro a Trieste. Ed è a Trieste appunto che Lelio dedica ancora tre paginette, l’ennesima dichiarazione d’amore di un nevrotico per la sua nevrotica città.
In mezzo molte presenze femminili: Sarah, Eva, Arianna (che riserverà una sorpresa all’ultima riga), la Ragazza bella bella, quella che rapirà Lelio per sempre. E l’occasione per l’autore di ribadire, anche con parole scottanti, l’insopprimibile tentazione dell’Eros, del libero amore, della piena disponibilità sessuale in barba a regole e codici («non esiste la moralità comune, ma solo quella imposta o ereditata»).
«Libertino e libertario» lo definisce Piera Detassis nell’acuta prefazione. Suonano strane, invece, dopo aver letto i suoi libri, le parole di una sua indimenticabile partner televisiva, Mina: «Lelio, imperatore dell’understatement, si schermiva se gli si diceva che era bravo, che le sue canzoni erano formidabili, che aveva uno swing pazzesco, che aveva un garbo, una classe che in giro non c’erano. Né si sono mai più visti dopo».
Certo, era questo lo showman cui in realtà non fregava affatto di esserlo. Ma c’era un altro Lelio, dietro e dentro. E lo avrebbe testimoniato egli stesso, dopo il trauma di Regina Coeli, picchiando furiosamente, nottetempo, sui tasti della sua Olivetti 32, e mettendosi completamente a nudo. Con le sue fragilità d’uomo e con le sue “oltraggiose”, irrefrenabili pulsioni.