L’America raccontata dai Premi Oscar

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Sarebbe il caso di ricominciare a costruire una cinematografia nuova e che guardi al futuro?

di Alan Viezzoli

 

La sera del 24 febbraio, ora di Los Angeles, si è svolta la 91ª edizione della cerimonia degli Oscar (o, come sarebbe più corretto, degli Academy Awards).

Per un mero elenco dei premiati rimando ai numerosi siti Internet che li elencano in modo dettagliato. In questo articolo vorrei dedurre, da nomination e assegnazioni, qualche considerazione sullo stato del Cinema – principalmente statunitense, ma in realtà non solo.

Innanzitutto è interessante notare come uno dei due film che hanno ricevuto più nomination è ROMA di Alfonso Cuarón, film al 100% messicano, non solo nella produzione ma anche nei temi trattati dalla pellicola. In un periodo storico come questo in cui alla guida degli Stati Uniti c’è Donald Trump, che di fatto sta costruendo un muro per separare gli USA dal Messico, la scelta appare forse più politica che cinematografica (pur essendo ROMA un capolavoro e avendo tutti i titoli per essere presente in ogni cinquina in cui è stato nominato). Stati Uniti, dunque, che nel momento di loro massima celebrazione, decidono di dare ben 10 nomination a un film messicano. Questa particolarità spicca ancora di più guardando i titoli che concorrevano come migliore regia. Dei cinque nomi in lizza, solo due erano statunitensi (Spike Lee e Adam McKay); gli altri tre provenivano dal Messico (il già citato Cuarón), dalla Grecia (Yorgos Lanthimos, che oltretutto con il suo La favorita è stato l’unico a uguagliare il numero di candidature di ROMA) e dalla Polonia (Paweł Pawlikowski).

Inoltre ben due di queste pellicole – ROMA e Cold War – erano due film girati interamente in bianco e nero. Una scelta così apparentemente “di nicchia” – i due titoli possono sembrare quasi lo stereotipo del cosiddetto “film d’autore” – risulta quanto meno curiosa nell’anno in cui l’Academy ha ventilato l’ipotesi di assegnare una nuova statuetta per la categoria “Miglior film popolare”, pur non specificando in alcun modo quale sarebbe la definizione di “popolare” e quali pellicole potrebbero concorrere per tale premio. Per contro, invece, tra i migliori film era presente, per la prima volta nella decennale storia del “Marvel Cinematic Universe”, un cinecomic: Black Panther di Ryan Coogler.

Alla fine, nonostante ROMA abbia vinto sia il premio per il miglior film straniero sia quello per migliore regia, l’Oscar a miglior film è andato Green Book di Peter Farrelly. Ma Green Book è davvero il miglior film del 2018? Forse no, ma sicuramente la sua vittoria è perfettamente in linea con i vincitori dello stesso premio negli scorsi anni. Green Book è sicuramente un buon film, con ottime interpretazioni e che usa il razzismo degli Anni ’60 per parlare degli Stati Uniti di oggi in maniera meno banale rispetto ad altri film dello stesso tipo, ma per esempio già BlacKkKlansman di Spike Lee faceva la stessa cosa con una forza e una precisione tecnica superiore. Perché, dunque, l’ha spuntata Green Book? Probabilmente perché è un film “medio”, che accontenta tutti i membri dell’Academy che votano per il miglior film (che, ricordiamo, è una delle poche categorie, se non l’unica, per la quale tutti i membri possono esprimere una preferenza). Tale andamento lo si vede molto bene guardando gli Oscar per miglior film assegnati negli Anni ’10 del 2000: Moonlight nel 2017, Il caso Spotlight nel 2016, 12 anni schiavo nel 2014, Argo nel 2013, Il discorso del re nel 2011. Tutti film buoni ma molto meno forti di loro diretti concorrenti che, forse, avrebbero meritato di più (per citarne solo alcuni: Il ponte delle spie nel 2016, Lei nel 2014, Django Unchained o Amour nel 2013, Il grinta o Un gelido inverno nel 2011).

Probabilmente il miglior esempio di quanto detto finora è la constatazione che, a fine serata, il film che ha portato a casa più statuette è stato Bohemian Rhapsody di Bryan Singer, prodotto ecumenico e cerchiobottista che esalta la figura dei Queen e di Freddie Mercury a un punto tale da creare dei falsi storici pur di mettere tutto e tutti sotto una buona luce. Un film che maschera la sua intrinseca debolezza ricreando negli ultimi venti minuti l’intera performance dei Queen al Live Aid del 1985 così da ingannare il pubblico il quale si ritrova a scambiare l’esaltazione per i brani dei Queen con quella per la pellicola. Tralasciando le due statuette assegnate per miglior sonoro e miglior montaggio sonoro, difficili da contestare, gli altri due Oscar sono andati a Rami Malek – quando in lizza c’erano Chistian Bale per Dick Cheney in Vice – L’uomo nell’ombra e Viggo Mortensen per Green Book, entrambi personaggi già esistenti come il Mercury di Malek ma entrambi con alle spalle un lavoro attoriale ben maggiore e più complesso – e al montaggio. Quest’ultimo premio appare davvero il più incomprensibile della serata, sia perché Bohemian Rhapsody ha un montaggio estremamente scolastico, sia perché già il solo Vice – L’uomo nell’ombra, suo diretto concorrente, è un film che non potrebbe esistere senza il suo montaggio attento e peculiare.

Un ultima parola sul miglior film d’animazione. Posto che spiace sempre che i film d’animazione fatichino ad arrivare in altre categorie più importanti, quasi come se i membri dell’Academy non li considerassero veri film (quest’anno solo L’isola dei cani è uscito dalla sua nicchia per competere come miglior colonna sonora), è interessante notare come i due colossi Disney e Pixar si siano presentati con due sequel – rispettivamente Ralph spacca Internet e Gli Incredibili 2 – ma siano rimasti entrambi a bocca asciutta a favore di un film a mio avviso non riuscitissimo, ma che sicuramente proponeva un modo completamente nuovo di vedere l’animazione. Che, finalmente, anche Hollywood si stia rendendo conto che la moda di sequel e reboot ha fatto il suo tempo e che sarebbe il caso di ricominciare a costruire una cinematografia nuova e che guardi al futuro? Se così fosse, sarebbe bello se la cosa partisse proprio dall’animazione.