La virtù magica di Fulvia Ciano
giugno 2021 | Il Ponte rosso N° 70 | visti da vicino | Walter Chiereghin
Pubblicati i ricordi di una carriera del soprano triestino
di Walter Chiereghin
Confesso di saperne poco di musica lirica: a teatro ho visto il Don Giovanni di Mozart, l’Aida. Tosca, Butterfly, poco d’altro. Conosco naturalmente il coro del Nabucco, Una furtiva lagrima, il brindisi della Traviata. Ho seguito alla televisione i concerti dei tre tenori; qualche volta, sotto la doccia, canticchio come posso Che gelida manina, Nessun dorma – da quando ho sentito Pavarotti – soprattutto Recondita armonia o E lucevan le stelle, ma sono tutte arie da tenore, e con la mia voce da baritono sono felice che non mi senta praticamente nessuno. D’altronde non posso mica limitare il mio repertorio a Cortigiani vil razza dannata, anche se concettualmente l’incipit della disperata romanza di Rigoletto mi induce a una spontanea adesione. Questa così carente e lacunosa cultura in materia non mi ha impedito di leggere con vivo interesse So anch’io la virtù magica, opera prima di Fulvia Ciano, e anzi mi ha spronato a curiosare in un mondo che mi è quasi del tutto sconosciuto, quello di una cantante lirica, un soprano, che godette di un rimarchevole successo a partire dagli anni Sessanta del secolo passato. E poi, certo, una ragione suppletiva della mia valutazione positiva risiede nel fatto che Fulvia, da un paio d’anni, è una cara amica e mi ha fatto piacere ricevere col libro una risposta scritta alle domande che ogni tanto mi capita di rivolgerle per farmi raccontare, e per capire, qualcosa di più di quella sua prolungata proficua esperienza.
Il libro racconta la lunga storia di Fulvia Ciano nel suo rapporto con la musica lirica, che ha imparato ad apprezzare fin da piccola, ascoltando alla radio, vicino alla mamma, le opere che venivano trasmesse (cita in particolare Madama Butterfly, e in effetti Puccini rimarrà il grande amore della sua carriera d’artista, non sempre o non adeguatamente corrisposto). poi ci fu l’incontro con Verdi, al cinema col padre, a vedere e ascoltare Il Trovatore. Nessun conservatorio, i primi passi da autodidatta, ma confortati da un gran voglia di cantare, da nessuna – o pochissima – paura del palcoscenico, ma con ogni evidenza anche da una bella voce, che le consentì di muovere i primi passi, nonostante le ironie della madre, quando Fulvia si propose di far diventare quella sua passione un autentico lavoro. La partenza, in una città come Trieste sempre infatuata dalla musica, non poteva che prendere le mosse da un coro di dilettanti, il “Nuovo Montasio”, dove rapidamente diventò «la voce guida dei soprani, e voce solista quando ce n’era bisogno, sempre senza saper leggere una nota». Poi la scelta di affidarsi a una maestra di canto, coi soldi guadagnati grazie al suo lavoro di impiegata contabile.
Da lì, dal pianoforte a coda nello studio della sua maestra, un’audizione al Teatro Verdi, e furono mollati gli ormeggi per una navigazione nel mondo della lirica, che la condusse a interpretare ruoli di progressiva difficoltà, a viaggiare per l’Italia e per l’Europa, a conoscere colleghi più o meno illustri e ad essere a sua volta conosciuta in quell’ambiente lavorativo che, come ogni altro, era irto di difficoltà, di gelosie e di invidie, ma anche di soddisfazioni, per chi affrontava con impegno gli incarichi che erano riusciti a farsi assegnare.
Furono un esordio beneaugurante di una carriera di crescente impegno le prime parti assegnatele in ruoli secondari dal teatro della città natale, di per sé importante tempio della lirica, dove presenze come quelle di Di Stefano, Del Monaco e della mitica Maria Callas avevano già assicurato al “Verdi” un ruolo di primo piano nel panorama musicale non solo italiano. Una carriera luminosa, che se non fece della Ciano una diva da rotocalco, le consentì di acquisire un ruolo di crescente autorevolezza, fino a conquistare a più riprese quel camerino da primadonna che (l’ho imparato dalla lettura del libro) è secondo soltanto a quello del direttore, in una gerarchia non scritta ma tuttavia sempre fedelmente osservata negli spazi riservati agli artisti e interdetti invece ai comuni spettatori.
Ma è forse meglio farci raccontare alcune cose direttamente dalla viva voce di lei, approfittando della sua cortesia e dell’amicizia che ci vede spesso seduti al medesimo tavolo nel bel giardino della casa dove attualmente risiede col marito.
Ho avuto qualche perplessità rispetto al titolo che hai scelto, un verso dal Don Pasquale, probabilmente ignoto ai più.
è un omaggio a Donizetti e alla prima opera che affrontai da protagonista. Avevo in effetti pensato a Vissi d’arte, vissi d’amore, della Tosca, ma mi sembrava da un lato banale, dall’altro pretenzioso. E poi, detto fra noi, vissi anche d’altro.
Sei stata in trasferta in Cecoslovacchia nei giorni dell’occupazione sovietica che pose fine alla cosiddetta Primavera di Praga [episodio anticipato sulle pagine di Letture del Ponte rosso n. 4 ndr]. L’impressione che si ricava leggendoti è che hai vissuto quell’esperienza con molta tranquillità.
Sono sempre stata una curiosa e interessata alla storia dei popoli. Il fatto di aver potuto varcare la cortina di ferro in tempi ancora piuttosto bui e di conseguenza di essermi trovata sul posto proprio nel momento dell’avvenimento di un fatto storico di quella portata, sì, posso dire che mi ha eccitata. Paura? Ma neanche un po’! Un po’ preoccupata per il fatto che avrei potuto perdere il lavoro a cui tenevo molto, e poi l’incertezza del ritorno a casa. Ma la consapevolezza di vivere in prima persona quell’avvenimento, fugava tutti gli istanti di incertezza. E poi ero, e sono tuttora fatalista!
Credo di aver compreso, leggendo il tuo libro, che non basta il bel canto per essere un buon cantante, ma servono anche doti di attore per calcare il palcoscenico. Ti sei sentita a tuo agio in entrambi gli ambiti?
Sì, però confesso che tutto sommato, pur amando cantare, preferisco il ruolo di attrice! Infatti non amavo i concerti in cui ci si deve concentrare al massimo sull’emissione della voce. Nell’azione scenica, entrando profondamente nel carattere del personaggio come facevo io, anche la voce è libera di esprimersi. A volte ovviamente, di fronte a un passaggio vocale particolarmente arduo, bisogna saper guidare la vocalità affidandosi alla tecnica imparata negli anni studio.
Il sottotitolo del tuo libro, Memorie semiserie di una vita in palcoscenico, definisce bene tanto il contenuto che hai dato a questi tuoi ricordi quanto l’aspetto della tua personalità, che mantiene un’autoironia anche nella serietà del tuo impegno. Fatale dunque che finissi per esercitarti come soprano soubrette?
A questo non saprei rispondere con certezza. I ruoli di soubrette sono chiaramente sempre brillanti, per cui mi pare che il mio carattere, ma anche il mio aspetto fisico e il mio modo di agire sul palcoscenico, davano a chi mi doveva scritturare la sensazione che ero nata per quel genere di personaggi. Il maestro Zafred che mi vide per la prima volta come Clorinda in Cenerentola di Rossini, quando mi convocò per affidarmi Norina del Don Pasquale, mi disse queste testuali parole: «Ieri sera l’ho ammirata in Cenerentola e mi son detto “Ecco la Norina ideale!». E questo “clichè” mi rimase per tutta la vita!
La tua grande passione per Giacomo Puccini non ha trovato il corrispettivo nella maggior parte dei ruoli che hai interpretato, che spesso ti hanno tenuto lontana dalla sua musica. Se ci sono rimpianti in te, è questo il principale?
Sì, è un rimpianto, ma nello stesso tempo mi rendo conto che, invece di divertirmi come è stato in generale, vista la mia partecipazione emotiva ai sentimenti del personaggio, avrei sofferto troppo e forse anche la mia voce ne avrebbe risentito.
Credi di aver lasciato l’opera al momento giusto?
Forse ho fatto questa scelta un po’ presto, ma la mia vita era entrata in una diversa dimensione, e le lunghe assenze da casa iniziarono a pesarmi. Nello stesso tempo era cambiato anche il nostro mondo teatrale. Non si facevano più amicizie, terminate le prove ognuno se ne tornava al suo residence. Niente più pranzi e serate in compagnia di colleghi. I miei ultimi impegni sono stati pesanti, a parte quelli con Herbert Handt, con cui si lavorava alla vecchia maniera, e facevamo sempre “clapa”! Per cui posso dirti che sì, è stato il momento giusto!
Ritieni che il mestiere di cantante sia cambiato negli anni più recenti?
A questa domanda non saprei in realtà risponderti. Sono tantissimi anni che sono fuori dal teatro. Da quel poco che so e che capisco, ora è diventato tutto più tecnico e manageriale. Carriere programmate, non sempre per ragioni di talento, e anche molto brevi. Non si fa tempo ad abituarsi e ad amare un cantante, che quello è già sparito! Un tempo li seguivi per anni, diventavano parte della tua vita, li amavi. Adesso, dopo Pavarotti, Domingo, la Freni, non è più così.
Cosa ti sentiresti di suggerire a una ragazza di oggi che volesse seguire il tuo percorso artistico?
Le direi di crederci, di abbandonarsi al proprio istinto, ma con serie basi tecniche e oggi anche di studio musicale, che ai miei tempi non era preso in grande considerazione. Infatti noi cantanti avevamo fama di essere gli esecutori più ignoranti! E soprattutto le direi di non arrendersi alle prime difficoltà: credere in sé stessa fino in fondo e tuffarsi dentro la musica, che è uno dei più bei doni del talento umano!
Norina
nel Don Pasquale
Teatro Verdi, Trieste