La terra in transformazione

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Cento artisti da tutto il mondo in mostra a Trieste, al Magazzino 26 del Porto Vecchio

Un’indagine visiva sulla possibilità di un’arte impegnata contro la distruzione della Natura

Non poche opere provano a denunciare brutalmente il disastro, facendo pensare che uno dei possibili destini archetipi dell’artista sia rivivere il mito di Cassandra

di Francesco Carbone

 

«…Come

potrebbe tornare a essere bella,

scomparso l’uomo, la terra.»

(Giorgio Caproni, Versi quasi ecologici)

 

A Trieste, al Magazzino 26 del Porto Vecchio, dal 2 al 24 settembre è stata allestita la mostra Terra in trasformazione curata da Maria Campitelli e da Manolo Cocho, nella quale sono state raccolte le opere di circa cento artisti di tutto il mondo. Terra in trasformazione è in realtà il risultato della fusione di due mostre: aQua, curata da Maria Campitelli, e Crisis Gaia curata in particolare dall’artista messicano Manolo Cocho. Purtroppo della seconda mostra, è stato possibile offrire solo la documentazione fotografica o video, che a parte evidentemente nel caso di opere realizzate con questi mezzi, hanno potuto restituire solo in parte l’effetto dei lavori proposti.

La trasformazione della Terra che richiama il titolo è quella provocata dalla ormai plurisecolare rivoluzione industriale, con la distruzione di molti ambienti, lo sterminio di migliaia di specie animali e l’innalzamento già ora catastrofico della temperatura del pianeta.

Chi scrive ha visitato la mostra sia il giorno euforico dell’inaugurazione che in una più tranquilla e silenziosa mattina domenicale. Malgrado il tema apocalittico, l’impressione è festosa, le opere colorate di artisti capaci di esprimersi con tutti i mezzi e i linguaggi possibili – mai tanti come oggi: dalla fotografia ai video, dalle istallazioni ai quadri alle sculture alle performance – comunicano una paradossale allegria: rubando a Ungaretti, si potrebbe dire magari un’allegria di naufragi, o da ultimo ballo sulla tolda del Titanic mentre l’iceberg ha già lacerato il fianco del transatlantico.

Ci si muove sospesi tra bellezza e catastrofe, e questo certo richiama la situazione da sempre paradossale dell’artista che rappresenta il tragico. Il rischio è che la sciagura diventi il pretesto per una sublimazione estetica che faccia dimenticare la sciagura rappresentata: come i san Sebastiani e i Cristi deposti o flagellati nella pittura barocca, in cui ci si perde nell’ammirazione dei bei corpi torniti e dei volti efebici ed estatici più che riflettere compunti sul male del mondo.

L’eleganza e la bella forma denunciano o diventano ornamento del disastro che pure si mostra? Problemi antichi come l’arte. Così, girando per le due sale di Terra in trasformazione, un po’ si pensa che potremmo essere finiti in una monade, in un’arca – come quella di Noè – in cui ci si rinchiude a contemplare con una certa estetica euforia la Terra che sta per essere inghiottita dal diluvio.

Alcuni esempi: le bellissime capesante dell’installazione Antropocene Drift di Angela Pietribiasi (anche gli artisti italiani scelgono di intitolare le loro opere in inglese) ci consolano o di allarmano per la deriva (drift) provocata da quest’era in cui l’uomo può concedersi ogni possibile hybris?

L’acqua, di un azzurro che ricorda quello celebre di Yves Klein, della Bellezza dell’acqua, sogno o realtà? di Barbara Romani, per quanto – come scrive la stessa artista – «contaminata», non sarà soprattutto un tentativo di ridarci, come dice il titolo, la bellezza?

Sempre elegante e bello è il molto più apocalittico video di Cecilia Donaggio Luzzato Fegitz Mare morto, che mostra «scheletri palestrati sfoggiare un olimpionico front-crawl, mentre all’orizzonte, futuri fossili lambiscono i cavalloni».

Lo stesso si può dire del video di Martina Stella The Negative Horizon: su uno schermo a trittico, l’orizzonte marino di Trieste – in lentissima dissolvenza – diventa quello della città sotto lo stesso cielo immobile.

Non poche opere provano a denunciare più brutalmente il disastro, facendo pensare che uno dei possibili destini archetipi dell’artista sia ritrovarsi a rivivere il mito di Cassandra. Cassandra era la sacerdotessa di Apollo, figlia dei re di Troia, che ingannò il suo dio. Apollo le aveva donato la capacità di leggere il futuro in cambio del suo amore. All’ultimo momento, Cassandra si negò; Apollo le sputò sulle labbra così condannandola a dire verità future a cui però nessuno avrebbe creduto.

Fabiola Faidiga, con l’installazione interattiva I’m An Alien – leggiamo nel catalogo – «lancia improrogabili interrogativi» nel tempo di «uno smarrimento epocale» a cui proprio l’arte potrebbe trovare qualche risposta, anche se «nella prospettiva che tutto è perduto». Per estinguerci, si può immaginare, ad occhi aperti.

Miriam Delbianco, col suo bel Souvenir azzarda una risposta a «quali potrebbero essere i souvenir» del nostro tempo nel già impensabile 2030. E ci propone il plexiglass poster di una palla di vetro con neve corrosa e graffiata dal tempo.

Nadja Moncheri presenta un dittico in tecnica mista che fa pensare alle rocce rosse dei deserti americani sovrastate da qualcosa che potrebbe essere una prateria secca e in fiamme o getti di lapilli nella notte. Si intitola Cliamte Change Earth. E sempre per il catalogo scrive che «si arriverà all’estinzione di forme animali e vegetali riportando il mondo ad un’era primordiale».

L’ecuadoregno José Andrade con il video Flood (che vuol dire alluvione) ci vuol mostrare che «l’obiettivo è quello di ritardare l’inevitabile blackout finale», dato che quello che l’umanità sa fare «nei momenti di crisi sia negare la realtà».Proprio come nel film Don’t Look Up.

Classica come una colonna dorica è l’installazione di Pierpaolo Ciana High Tide (che vuol dire alta marea, un dettaglio è la copertina di questo numero di Ponte Rosso): si vede una Terra irregolare realizzata in ceramica immersa per metà in una scatola di vetro sovrastata dalla foto – ripresa da sott’acqua – di due mani che pare vogliano prenderla (per salvarla o stritolarla?).

Sono opere, come pressoché tutte le altre, che hanno dunque una chiara intenzione performativa, per quanto disperata questa possa essere. Tutti sono ovviamente mossi dalle migliori intenzioni. Se c’è una linea che può dividere il coro – che non diventa quasi mai un urlo –  dei cento artisti, è tra chi constata una situazione del pianeta ormai compromessa e chi ancora crede che si possa sperare.

Sperare anche in modo un po’ naif, come ci propongono le foto della croata Mila Lazi (The Water Circle /Finger Touch), in cui si vedono persone che tengono un dito nell’acqua del mare, per – scrive l’artista – un «semplice gesto» che dovrebbe dare «la dimostrazione della volontà di ognuno di formare una rete di persone consapevole, rispettose verso l’ambiente» ecc.

Quanto ingannevole possa essere la speranza ce lo mostra un artista dell’Ecuador, José Cianca, che richiama per il suo video Estipendio il mito di Pandora la quale, disobbedendo a Prometeo, aprì lo scrigno che liberò tutti i mali del mondo, lasciando per lei nel fondo, appunto, solo l’ingannevole estremo dono della speranza.

Eva Silberknoll, austriaca, presenta The wilderness 1 una fotografia virata in azzurro in cui si vede una tazza-water da cui escono foglie serpentesche, mentre altre piante crescono e fioriscono intorno. L’uomo non c’è più. L’artista immagina che il suo pubblico saranno le stesse piante: «con l’aiuto di questo lavoro, vorrei incoraggiare la natura e il mondo vegetale a ribellarsi e a occupare le nostre vite».

Un altro richiamo all’infinito e sempre profetico mondo dei miti greci lo si trova nell’opera di Maja Flajsig, croata, che per la performance/video Walking and remembering, paths and memory, recupera la storia di Teseo che non si perde nel labirinto grazie al filo che gli diede Arianna: qui una possibilità di «sopravvivenza della vita» e di «adattamento» persiste.

Luise Kloos, austriaca, non meno elegante di altri, con la tela Ginkgo Infinity waterfall realizza con filo di rame una sorta di mandala – l’artista ha una formazione in cui l’arte tibetana è fondamentale – che potrebbe rappresentare la sezione dell’albero del Ginkgo come la vita che ritorna a dipanarsi circolarmente attorno a quella pianta tenace: l’albero di Ginkgo fu l’unico che sopravvisse a Hiroshima dopo la bomba.

Cordue Von Heymann (Fruit-market in Molenbeek, foto di una tela rovesciata su cui sono applicati, tra l’altro, quattro cespi d’insalata belga) ci dice della «situazione disperata di noi artisti che lavoriamo isolati nei nostri atelier, continuando a produrre tele enormi e a usare materiali come i colori acrilici», e domanda: «può aiutare?». Ovvero, sarà possibile farci uscire finalmente dall’ipnotica caverna di Platone, come vorrebbero Eva Petri e Rupert Huber, autori del video Re@Evolution?

 

Come il Candide di Voltaire, due artisti interessanti, scelgono di coltivare nel frattempo il loro giardino: Nancy Atakan, americana che vive a Istanbul, con Oleander presenta un fotomontaggio/video per documentare il suo «relazionarsi con le piante della sua terrazza»; Uwe Poth, tedesco che vive in Olanda, con l’installazione Cubus offre una delle molte varianti che ha creato per fare del suo giardino «il Pantheon» – un’arca di Noè vegetale di un Monet del XXI secolo? –, l’«edificio sacro composto da 249 dipinti realizzati nell’arco di 40 anni, dal 1980 al 2020)».

Oltre tutto questo, pare porsi la bellissima tela di Manolo Cocho, curatore della seconda parte della mostra, Green che – scrive Maria Campitelli – è «traduzione visiva della sua cosmogonia»: della vita che dalla sua origine ha in sé il tutto, il sistema complesso dell’universo e della mente umana.

Terra in trasformazione ci dice che siamo costretti a vivere in tempi interessanti e dunque complicatissimi e allarmanti. Uno dei curatori di Crisis Gaia, Vasja Nagy-Hofbauer, si augura «che le generazioni più giovani ma matura condividano uno stato d’animo più confuso non solo sul futuro ma anche sul presente». La cosa sarebbe da approfondire.

A un certo punto, si vede il video di Franz Wassermann Men fuck God (più di 18 minuti) in cui il corpo di un pesce è usato da un pene umano come una vagina, per una masturbazione compiuta fino all’orgasmo: che i tempi siano cambiati, nelle due volte che ho visitato la mostra, potrebbe provarlo anche il fatto che l’opera non attirava più attenzione delle capesante o delle teste di cinghiale esposte nei dintorni.

 

1.

Angela Petribiasi

Antropocene Drift

installazione

 

2.

Martina Stella

The Negative Horizon

video

 

3.

Manolo Cocho

Green

acrilico e tecnica mista su tela

 

4.

Cecilia Donato

Luzzato Fegitz

Mare morto

olio su tela