La Pala Baglioni di Raffaello
“Che questo sia l’ultimo sangue che scorre su Perugia”: la Pala Baglioni di Raffaello
di Nadia Danelon
A cinquecento anni dalla morte dell’artista, avvenuta proprio di Venerdì Santo, lo ricordiamo per mezzo di uno dei suoi maggiori capolavori.
Luglio 1500: di notte, nei pressi di Perugia, Grifone (detto Grifonetto) Baglioni sta per compiere l’atto peggiore della sua esistenza. In ballo, c’è il dominio della città di Perugia: per ottenere il potere, deve assicurarsi di rimanere l’unico Baglioni di sesso maschile in grado di rivendicare i propri diritti. Quel giorno, in famiglia c’è stato un matrimonio, quello di suo cugino Astorre Baglioni con Lavinia Colonna, destinato a sfociare in un terribile fatto di sangue. È così che il giovane Grifone, affiancato da compari senza scrupoli, compie numerosi delitti nel giro di poche ore: assassina, infatti, tutti gli uomini della famiglia Baglioni. Agisce da codardo: li aggredisce mentre stanno dormendo. Solo uno riesce a sfuggire al terribile destino: Gian Paolo Baglioni scappa sui tetti. Forse, Grifonetto è convinto che gli sia stato inferto almeno un colpo mortale.
Lo scandalo per questo gesto di una cattiveria inaudita è così grande da convincere Atlanta Baglioni, madre di Grifone, ad allontanare il figlio negandogli qualsiasi forma di aiuto che gli possa permettere di mettersi in salvo. Poco dopo, a sorpresa e in pieno centro della città di Perugia (Corso Vannucci), il sopravvissuto Gian Paolo ferisce a morte Grifone. Prima di spirare, Grifonetto manda a chiamare la madre e la moglie (Zenobia): sopraggiungono entrambe e Atlanta si dimostra pentita per aver negato il proprio aiuto al figlio. Grifone non riesce più a parlare ma, su richiesta della madre, perdona il suo assassino: lo fa toccando la mano di Atlanta, in segno di assenso nei confronti della supplica che gli è stata fatta.
Una volta spogliato il corpo di Grifonetto dagli abiti intrisi di sangue, Atlanta Baglioni li recupera e, cerimoniosa, li trasporta attraverso le principali strade della città. Giunge infine al Duomo e, una volta appoggiati gli indumenti dell’adorato figlio sui gradini che conducono in chiesa, pronuncia la fatidica frase: “Che questo sia l’ultimo sangue che scorre su Perugia”.
Questo episodio è destinato a rimanere impresso nella memoria cittadina e soprattutto in quella della povera Atlanta Baglioni che, alcuni anni dopo, si rivolge al giovane e talentuoso pittore Raffaello Sanzio allo scopo di commissionargli un’opera a perpetua memoria di quei fatti di sangue. Raffaello, secondo quanto riportato da Vasari, accetta l’incarico riservandosi però il diritto di eseguire l’opera al suo ritorno da Firenze.
“Prima che partisse di Perugia, lo pregò madonna Atlanta Baglioni che egli volesse farle per la sua cappella nella chiesa di San Francesco una tavola, ma, perché egli non poté servirla allora, le promise che tornato che fusse da Firenze, dove allora per suoi bisogni era forzato d’andare, non le mancherebbe.” (Vasari, 1568)
Sembra, comunque, che già prima di partire abbia realizzato alcuni disegni preliminari per quella che sarà la scena principale della pala Baglioni. Ce ne accorgiamo perché, seppure nelle prime idee il pittore dimostri la sua intenzione di volere dipingere un Compianto sul Cristo morto, la composizione subisce poi alcuni stravolgimenti che portano progressivamente al risultato finale. Ciò che Atlanta Baglioni desidera che venga sottolineato, infatti, è l’immenso dolore che la Vergine Maria ha provato perdendo il proprio figlio: una madre, proprio com’è anche lei, che finisce per svenire alla vista del cadavere di Gesù. Ecco che, in una seconda idea sviluppata nelle bozze, Raffaello ci mostra l’immagine della Pietà. Passerà ancora del tempo prima di giungere al risultato definitivo. La fase progettuale dell’opera, in ogni caso, è documentata da un totale di sedici disegni che si trovano oggi in collezioni differenti.
Raffaello, come preannunciato, si reca a Firenze subito dopo l’assegnazione dell’incarico: non dimentica, però, la promessa fatta ad Atlanta Baglioni e continua a lavorare alla composizione dell’opera, cercando degli spunti nelle opere dei maggiori autori del suo tempo. Guarda al suo maestro, Perugino, superandone però la staticità. Ma, soprattutto, si concentra sulle opere di Michelangelo: riferimenti ai capolavori del Buonarroti saranno particolarmente evidenti a lavoro ultimato.
Nel 1507 ritorna, quindi, a Perugia: ma, nonostante tutta la preparazione e gli schizzi accumulati, sembra avere le idee ancora un po’ confuse. Ha preparato forse due cartoni (De Vecchi, 1966), che però deve fare confluire in una sola scena.
È un parto difficile che, probabilmente, non ha l’effetto sperato: secondo molti studiosi, l’opera (collocata, in origine, nella cappella della famiglia Baglioni all’interno della chiesa di San Francesco al Prato) è poco riuscita. Risalta, infatti, una certa incoerenza nelle proporzioni delle figure suddivise in due gruppi.
Di sicuro, in ogni caso, Raffaello dimostra delle ottime intuizioni nella raffigurazione dei sentimenti e della gestualità: queste caratteristiche finiscono per “traghettarlo” agli splendidi risultati delle Stanze Vaticane. Infatti, sembra proprio che sia stata la Pala Baglioni (1507) a contribuire definitivamente al successo del giovane pittore, successivamente incoraggiato da papa Giulio II.
L’iconografia del dipinto principale della Pala Baglioni è piuttosto inconsueta: infatti, colpisce il fatto che sia stato fatto risaltare proprio il momento del trasporto del corpo di Cristo al sepolcro, piuttosto che la sua deposizione nello stesso (oppure, nei minuti precedenti, dalla Croce).
Si è già parlato di come, in questo dipinto, risultino evidenti alcune citazioni dalle opere di Michelangelo. Osserviamo, ad esempio, il braccio ciondolante di Gesù: la somiglianza di questo dettaglio al medesimo particolare della Pietà Vaticana ha spinto Vaiani (2006) ad ipotizzare un viaggio romano di Raffaello precedente rispetto al soggiorno ufficiale. L’arto senza vita, così come impostato dal Buonarroti, sarà (nel corso dei secoli) un motivo d’ispirazione per numerosi artisti: tra i più celebri, Caravaggio (Deposizione di Cristo) e David (La morte di Marat).
Dal Buonarroti, Raffaello copia anche la torsione di una delle Pie Donne intente a sorreggere la Madonna svenuta: il riferimento, in questo caso, va rintracciato nella Vergine del Tondo Doni. Se nel volto della Vergine svenuta, si può forse immaginare un ritratto di Atlanta Baglioni, viene da chiedersi come sia stato immortalato Grifonetto nell’opera a lui dedicata. Sembra, infatti, che il giovane al centro che sta sorreggendo le ginocchia di Cristo sia proprio lui: tant’è vero che la figura ci appare leggermente piegata verso il gruppo sulla destra.
La Pala Baglioni è rimasta intatta per cento anni: nel corso di una notte del 1608, per un capriccio, il pannello centrale raffigurante la Deposizione è stato trafugato con il consenso dei frati. Il nipote del papa di allora (Paolo V), cardinale Scipione Borghese, invaghito dell’opera nel corso dei suoi studi, la ottiene in dono dallo zio.
Il disappunto dei perugini si fa sentire presto, ma la risposta è perentoria. Paolo V ufficializza il passaggio dell’opera nella collezione privata (emanando un Breve pontificio) e il cardinale Scipione si limita a commissionare due copie del dipinto ai pittori Lanfranco e Cavalier d’Arpino, piuttosto che riconsegnarla (De Vecchi, 1966). Il dipinto si trova oggi in Villa Borghese a Roma.
Nel 1797, la predella della Pala (che, come la cimasa oggi conservata alla Galleria Nazionale dell’Umbria, viene considerata opera degli aiuti di Raffaello) è stata portata in Francia: rientrata in patria nel 1816, viene consegnata a papa Pio VII. Ancora oggi, fa parte delle collezioni dei Musei Vaticani.
Della Pala, ultimo capolavoro della giovinezza di Raffaello prima dei successi romani, Vasari ci ha fornito una bella descrizione nella sua Vita di Raffaello d’Urbino:
“È in questa divinissima pittura un Cristo morto portato a sotterrare, condotto con tanta freschezza e sì fatto amore, che a vederlo pare fatto pur ora. Immaginossi Raffaello nel componimento di questa opera il dolore che hanno i più stretti et amorevoli parenti nel riporre il corpo d’alcuna più cara persona, nella quale veramente consista il bene, l’onore e l’utile di tutta una famiglia: vi si vede Nostra Donna venuta meno, e le teste di tutte le figure molto graziose nel pianto e quella molto graziosa di San Giovanni, il quale, incrocicchiate le mani, china la tesa con una maniera da far commuovere qual è più duro animo a pietà. E di vero chi considera la diligenza, l’amore, l’arte e la grazia di quest’opera, ha gran ragione di meravigliarsi perché ella fa stupire chiunque la mira per l’aria delle figure, per la bellezza de’ panni et insomma per un’estrema bontà ch’ell’ha in tutte le parti.”