La difficile arte di scegliere
Editoriale | Il Ponte rosso N° 60 | settembre 2020
Il 20 e il 21 settembre scorso si è votato, in tutta Italia, per il referendum confermativo della riforma costituzionale che prevede la riduzione, dalla prossima legislatura, del numero dei parlamentari, e inoltre in sette regioni per eleggere il Presidente della Giunta regionale, volgarmente chiamato governatore (tu vuo’ fa’ l’americano?). Non vorrei annoiare nessuno discettando attorno al poco appassionante tema di chi sia il vincitore e chi il perdente nelle due consultazioni popolari, tanto si sa che nel nostro Paese vincono sempre tutti. Quello su cui vorrei riflettere sono alcune marginali considerazioni circa il bagaglio di informazioni e di suggestioni con il quale i cittadini sono stati avviati alla cabina elettorale.
Iniziamo dal referendum. Il dibattito politico sul quesito sottoposto al giudizio degli elettori si è sviluppato, poco e male, soltanto nelle ultime settimane precedenti il voto, quasi fosse stata data per scontata una plebiscitaria affermazione del sì, per confermare la quale non c’era neppure necessità di spendersi in uno straccio di dibattito televisivo. Sebbene le ragioni del no avessero solide argomentazioni, queste sono state sfoderate prevalentemente a ridosso dello scadere dei termini della campagna referendaria, peraltro con uno spiegamento di forze impressionante per dimensioni e per trasversalità, tra costituzionalisti, uomini di partito, opinionisti che si sono affannati nell’argomentare – spesso anche scompostamente – in favore del mantenimento dello status quo quanto ad affollamento delle aule parlamentari. Un preponderante schieramento dei mezzi d’informazione – con l’imbarazzante punta di diamante della corazzata Repubblica-Espresso – si è schierato più o meno esplicitamente, individuando tra le motivazioni del suo diniego al cambiamento della Carta anche due argomentazioni più delle altre discutibili. La prima è stata che votare sì avrebbe significato cedere a un antiparlamentarismo becero che si configurava come scopertamente antidemocratico, dimenticando che la modifica alla Costituzione è stata votata, in quarta lettura, praticamente all’unanimità dei parlamentari. L’altra motivazione, un po’ di ripiego, è stata proposta in quanto la semplice riduzione del numero di deputati e senatori avrebbe dovuto essere accompagnata da un più complessivo disegno che mettesse al riparo da un calo della rappresentatività delle Camere: insomma, un tardivo ricorso al «ci vuole ben altro», argomento dialettico sempreverde quanto, il più delle volte, del tutto inconsistente.
Venendo alla consultazione amministrativa, spiace constatare che le previsioni della vigilia disegnavano un possibile esito del tutto differente da quanto poi è avvenuto nelle urne, talché qualche sprovveduto ha persino millantato un sicuro successo che avrebbe visto trionfare lo schieramento di cui si considera leader in sei regioni su sei, per cui più ruvido dev’esserli apparso il risveglio da un sogno che per molti suoi concittadini era in effetti un incubo, dissoltosi fin dai primi risultati apparsi sugli schermi dei computer o su quelli televisivi.
Tutto ciò, i clamorosi svarioni dell’informazione alla vigilia delle operazioni elettorali dovrebbero far riflettere molti, tra sondaggisti e professionisti dell’informazione, circa le proprie responsabilità nei confronti di chi li ascolta, soprattutto di coloro che ascoltano distrattamente, tenendo presente che si rivolgono a un Paese in cui – come afferma un rapporto dell’OCSE elaborato lo scorso anno – il 28% della popolazione di età compresa tra i 16 e i 65 anni è da considerarsi analfabeta funzionale, incapace, pur sapendo leggere e scrivere, di comprendere un testo pure pensato per gente comune, come sono o dovrebbero essere un articolo di cronaca o una bolletta telefonica. Ignorare quest’esigenza di correttezza informativa, anche quando non sia in malafede, significa dare una mano alla demagogia e, in definitiva, compiere un’azione di avvilimento dei valori democratici.