Irene Brin, arbitra dell’eleganza

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I molti volti di una giornalista e letterata che piacque a Leo Longanesi

di Gianfranco Franchi

 

“Io non mi chiamo né Irene, né Brin, anche se così figuro in contratti, elenchi telefonici, discorsi famigliari. Sono nomi inventati da Leo Longanesi. Io sono un’invenzione di Leo Longanesi”: così parlò Maria Vittoria Rossi, alias Irene Brin [Roma, 1911-Bordighera, 1969], nel numero del Borghese dedicato alla scomparsa del povero, geniale Leo, nel 1957. Forse non fu un’invenzione, ma un adattamento, una trasformazione: la trasformazione più riuscita e ispirata di quella sconcertante mutaforma che fu la Rossi, nel corso della sua attività giornalistica e letteraria. Dapprima, appena maggiorenne, si firmava “Marlene”, nelle sue collaborazioni col quotidiano ligure Il Lavoro: scrivendo quegli articoli conquistò Longanesi, che la ingaggiò su Omnibus, perché insegnasse l’eleganza e lo snobismo agli italiani. Poi vennero diversi altri pseudonimi, come ricordava Flavia Piccinni su Nazione Indiana, qualche anno fa: “[…] e Oriane, proprio come la duchessa di Guermantes de Alla Ricerca del tempo perduto. Poi venne il tempo di Mariù, utilizzato sempre per scrivere su Il Lavoro, quindi la finta autobiografia della ballerina Bella Otero. Divenne poi Irene Brin e infine, nel 1950, si trasformò in Contessa, nello specifico nella Contessa Clara Ràdjanny von Skèwitch, nobildonna agée che, con numerosi figli e sfortune personali, dispensava brillanti consigli per tutte le età e le stagioni”.

Le Edizioni di Atlantide hanno appena pubblicato una scelta dei suoi lavori: Il mondo. Scritti 1920-1965 [pp. 318, euro 30], per la curatela proprio di Flavia Piccinni, che già s’era dedicata alla nuova edizione del discusso Olga a Belgrado [Elliot, 2012]; il risultato è la restituzione dei frammenti di un’intelligenza sofisticata e leziosissima, una Colette più borghese e più sensibile al costume, una parente stretta del Flaiano cronista romano, non estranea all’influenza di Savinio (quel Savinio che oggi potremmo ritrovare in raccolte adelphiane postume come Nuova enciclopedia o nella selleriana Torre di guardia, per capirci, ma molto meno politico). Il mondo è strutturato in quattro parti: la prima, “Usi e costumi 1920-1940”, è una scelta di pagine provenienti dalla prima edizione omonima, datata 1944; la seconda, “Cose viste 1938-39”, comprende pagine già apparse in volume nell’edizione postuma Sellerio, 1994; la terza, “Le visite”, quella più fiacca e in certi frangenti quasi frivola, era originariamente apparsa nel 1945; la quarta, “Galateo”, pesca scritti apparsi in due diverse edizioni, quella del 1953 e quella del 1965, sotto l’eteronimo “Contessa Clara”. Concludono Il mondo una nota biobibliografica e un appassionato scritto della Piccinni, ripubblicato nei giorni scorsi sulla vecchia Nuovi argomenti. La letterata tosco-tarantina tende a insistere sulla ricchezza delle letture e sull’eterogeneità dell’intelligenza della Brin, ovviamente solo parzialmente restituita da questo libro: “Nella sua vita Maria Vittoria Rossi è stata giornalista di ‘cani schiacciati’, come all’epoca si definivano gli articoli di costume, è stata instancabile traduttrice, gallerista di talento, brillante anticipatrice di tendenze, avida lettrice e raffinata intellettuale”, scrive. Forse potremmo pensare che questa eccezionale sensibilità e questa ricercatezza hanno qualcosa di famigliare: non sbaglieremmo. Veniva infatti, per metà, dalla Trieste austriaca. Sul Piccolo, nei giorni scorsi, Arianna Boria ha opportunamente ricordato che è un po’ estraniante leggere qua e là che la madre della Brin era un’austriaca viennese: sentite qua: la Brin era “figlia di Maria Pia Luzzatto, colta e poliglotta ebrea goriziana, nata a Vienna, e di Vincenzo Rossi, generale del regio esercito, di famiglia ligure. Sua nonna era la triestina Adele Ara, che visse nell’omonima villa di via Monte Cengio, e si sposò a Trieste con l’ingegner Emilio Luzzatto, anche lui triestino: delle loro nozze restano i documenti secondo il rito ebraico”. Il cosmopolitismo, la sensibilità per certe culture straniere, il geniale e naturale poliglottismo [parlava 5 lingue], la raffinatezza le venivano dalla sua classe triestina, a quanto pare; in un certo senso, sono elementi ormai convenzionali per raccontare una certa borghesia tardo ottocentesca-primo novecentesca, quella che ha figliato il gallerista Leo Castelli e Fausta Cialente [una metà della Cialente: quella delle Sorelle Wieselberger], e poi Gillo Dorfles e Bobi Bazlen. Quando si dice “humus fertile”… che sia stato il kren?

Il mondo della Brin ha avuto, sin qua, una buona accoglienza critica. Natalia Aspesi, su Repubblica-Robinson, è stata la più entusiasta. Ha scritto che “dovrebbe diventare un libro di testo nelle scuole di giornalismo anche finanziario, anche politico, per rendere appassionanti notizie quasi sempre noiosamente catastrofiche, superare soggezioni e paure, scansare ovvietà e pettegolezzi incontrollabili, scavare oltre, impegnarsi a raccontare quelle apparenti futilità che testimoniano un tempo e un mondo più degli schizofrenici bisticci politici. Sul web poi potrebbe diventare un indispensabile ‘Monsignor della Casa’ per tentare di riparare, almeno in parte, alla sua diffusa ineleganza”.

Silvana Mazzocchi, sempre su Repubblica ha altrove osservato: “Irene Brin riesce a ritrarre con sorprendente e incantevole cinismo taluni aspetti – l’ossessione per la bellezza, la devozione per l’apparenza, il tormento per il successo, la mania per il denaro e l’affermazione sociale – che non conoscono lo scorrere del tempo, e che stanno avendo il loro acme negli anni che viviamo”. Il professor Vincent Torre, nipote della Brin dal lato materno, Luzzatto, intervistato dal Piccolo, ha rimarcato la modernità, l’eleganza e l’autonomia della famosa zia: lei e suo marito non erano né schierati né ideologizzati: “Volevano vivere in modo intelligente e colto, ma non ideologico. Ho capito dopo che sono stati lungimiranti”. Quanto lungimiranti? Abbastanza da poter tornare in libreria a tre generazioni di distanza, con una certa apprezzabile personalità. Vengo a qualche osservazione personale sul Mondo. Nella prima sezione, “Usi e costumi”, le parti migliori sono i ritratti brevi di Coco Chanel, di Gertrude Stein e di Katherine Mansfield e quelli di Rodolfo Valentino, Tristan Tsara e D.H. Lawrence; nella seconda sezione, “Cose viste”, non perdete la cronaca dell’incontro con Montale e compagnia cantante alle Giubbe Rosse; altrettanto apprezzabile la satira sui salotti letterari, poco oltre, e micidiale quella sui milanesi ricchi. La terza sezione potete saltarla con eleganza, un po’ come il favoloso Serhij Bubka una trentina d’anni fa, perché davvero ha qualche polvere di troppo; mentre l’ultima, quella del Galateo, può restituirvi qualcosa di emozionante e di divertente almeno per quanto riguarda le voci dedicate agli armadi, al baciamano, al rifiuto della “baldoria”, al no secco alla “birichina” di turno, alla centralità della caraffa (che nessun triestino può negare, per spritz ragione), alla traduzione dell’enigmatica formula “c/o”, alla pericolosità del rumore (c’è tutta la perduta triestinità del mondo, in quella voce) e all’opportunità di sussurrare, in casa, dopo una certa ora, per finire con l’ostilità alla zizzania. Sono andato incontro a questo libro perché mi è stato riferito che poteva avere qualcosa a che fare con Trieste, anche se di Trieste non parlava: è proprio così, e come sempre è stato emozionante riconoscere parte della nostra amata e addormentata signora nelle righe di una sua figlia bastarda; non sono particolarmente appassionato di “costume”, per capirci sono tra quanti deplorano che un’altra creatura longanesiana, cioè Flaiano, abbia abbandonato la strada del romanzo subito dopo l’esordio per giocare a fare il cronista o l’elegantiae arbiter (o il delirium arbiter): tuttavia, sono contento di sapere che, tra i miei scaffali, ci sia un pezzo di questo “Mondo” meno moderno di quanto potrebbe sembrare: mezzo classico. Ultima cosa: il sottotitolo andrebbe corretto. Nel 1920 la Brin aveva nove anni. Nel 1930, diciannove: a diciannove anni già pubblicava.