In fine di stagione

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Alcuni degli ultimi spettacoli in cartellone

di Paolo Quazzolo

 

Conclusione di stagione scoppiettante alla Contrada con quello che ormai è diventato un classico della risata degli ultimi vent’anni. Si tratta de La cena dei cretini, testo dell’autore francese Francis Veber tratto dall’omonimo film che ha visto la luce nel 1998 e che da allora viene ripetutamente riproposto, nella la versione scenica, dalle compagnie teatrali di mezzo mondo. L’idea di Veber è allo stesso tempo spassosa e crudele: un gruppo di benestanti borghesi parigini organizza, ogni mercoledì, una cena ove ciascuno dei partecipanti deve portare con sé un “cretino”. Chi tra loro avrà portato il “cretino” migliore vincerà l’inconsueta competizione senza che, naturalmente, la vittima in questione abbia coscienza di quanto è successo alle sue spalle. Pierre Brochant è convinto di ottenere una sicura vittoria quando, all’appuntamento settimanale con i suoi amici, ha deciso di portare Françoise Pignon, un impiegato del Ministero delle Finanze appassionato nella costruzione di modellini realizzati con i fiammiferi. Dal momento in cui Pignon entra a casa di Pierre, tuttavia le cose iniziano ad andare per il verso peggiore: la dabbenaggine dell’impiegato, sorretta da una idiozia senza confini, fa nascere una serie di irreparabili contrattempi che, alla fine, saranno la crudele punizione inflitta a Brochant per il disumano gioco della cena. Il testo ha avuto quali brillanti interpreti, nei due ruoli principali, Paolo Triestino e Nicola Pistoia, che hanno firmato a quattro mani anche la scorrevole regia, dando vita a uno spettacolo molto divertente e accolto dal pubblico con viva simpatia.

Testo raro e per questo particolarmente prezioso è stato quello proposto alla Sala Bartoli qualche settimana fa: si tratta di Platonov, lavoro minore di Anton Cechov risalente alla prima parte della carriera artistica del grande autore russo. La commedia ebbe un destino curioso: la sorella di Cechov, morto l’artista, temendo che il testo potesse andare perso, lo nascose, durante la rivoluzione russa del ’17, in una cassetta di sicurezza, facendone così perdere la memoria. Solo alcuni anni più tardi venne ritrovato quasi casualmente e portato a conoscenza del pubblico. La nuova versione del testo, riadattata ad atto unico, è stata messa in scena da “Il Mulino di Amleto” con la regia di Marco Lorenzi e un affiatato gruppo di attori. Platonov, pur essendo stato composto da un Cechov appena ventenne, già preannuncia i grandi temi che l’autore russo affronterà nelle sue opere maggiori, proponendo una commedia dall’impianto corale in cui si offre un doloroso affresco dell’esistenza umana, dei conflitti e delle angosce a tormentano gli esseri viventi. Il male di vivere, la malinconia, la ricerca di una felicità che sembra essere costantemente altrove, sono i temi di questa commedia di cui “Il Mulino d’Amleto” ha offerto una convincente messinscena.

Testo vivamente atteso dal pubblico è stato La classe operaia va in paradiso, proposto a un’affollata sala del Politeama Rossetti da Emilia Romagna Teatro Fondazione. Motivo di richiamo, in verità, non era il testo di per se stesso, quanto piuttosto la presenza sul palcoscenico di Lino Guanciale, attore particolarmente amato dalla platea triestina per le sue apparizioni televisive ne La porta rossa. Molti spettatori, tuttavia, attratti dal nome del protagonista, non immaginavano di doversi confrontare con un testo di teatro politico, impegnativo e alquanto lungo (tre ore e un quarto). La classe operaia va in Paradiso è uno spettacolo tratto dall’omonimo film di Elio Petri uscito nel 1971: narra le vicissitudini di Ludovico Massa, detto Lulù, operaio impiegato presso la fabbrica di vernici BAN, il quale deve mantenere due famiglie, ha alle spalle un’ulcera e un’intossicazione rimediate in fabbrica, ma nonostante ciò è uno stakanovista e sostenitore convinto del lavoro a cottimo. Tutto questo fintantoché un incidente sul lavoro non lo costringe a prendere coscienza della sua vita e delle misere condizioni di lavoro degli operai. Un film di denuncia, dal forte impatto, che alla sua uscita provocò numerose polemiche, dal momento che contestava non solo le condizioni alienanti di lavoro nelle fabbriche, ma accusava parimenti i padroni e i sindacalisti. Lo spettacolo teatrale, firmato da Claudio Longhi, parte da una visione brechtiana per inserire all’interno elementi di varia derivazione, dalla commedia all’italiana fino ad aspetti di carattere espressionista, in un prodotto artistico che, al pari del film, ha il merito di descrivere la società italiana degli anni Settanta attraverso l’inedita prospettiva della fabbrica. Lo spettacolo tuttavia non è di semplice fruizione e l’impatto più profondo lo ottiene solo su quella fascia di pubblico che, per motivi anagrafici, è in grado di leggere le pieghe più profonde del testo, facendosi guidare soprattutto della memoria personale. Bravo Lino Guanciale che si conferma essere un attore nato sul palcoscenico – alcuni forse ricordano una sua apparizione al Rossetti in una bella edizione del brechtiano Arturo Ui al fianco di Umberto Orsini – capace di reggere la scena al pari del set cinematografico, come non molti attori sanno fare. Affiatata e partecipe l’intera compagnia.

Ultimo spettacolo della stagione alla Sala Bartoli è stato En attendant Beckett, un omaggio a Samuel Beckett, grande protagonista del teatro dell’assurdo, voluto da un altrettanto grande maestro della scena italiana, Glauco Mauri. Assieme a Roberto Sturno, Mauri ha proposto una serata teatrale di livello, in cui i due attori sono stati ciascuno protagonista di un atto unico dell’autore irlandese. Lo spettacolo, che si apre con una serie di pagine proposte in lettura e tratte dalla produzione radiofonica e letteraria di Beckett, ha il suo momento principale nelle due brevi pièces affidate, ciascuna, alla maestria scenica dei due attori. Roberto Sturno è stato l’ottimo interprete di Atto senza parole, una pièce che, come promette il titolo, è un’azione pantomimica in cui un omino si trova a combattere disperatamente contro oggetti che si ribellano ai suoi voleri. Mauri ha riproposto invece L’ultimo mastro di Krapp, storia di un uomo che trascorre l’esistenza rinchiuso in una stanza e rivive il proprio passato attraverso l’ascolto di decine di bobine su cui è registrata la sua voce. Mauri fu, nel 1961, il primo a proporre in Italia questo dramma, facendone in seguito una sorta di leitmotiv della sua carriera artistica. E con viva emozione l’attore, quasi novantenne, ha spiegato al pubblico che ancora oggi, a quasi sessant’anni di distanza, continua a utilizzare le bobine che aveva registrato, tanti anni fa, per quella prima messinscena. Una curiosa sovrapposizione tra la finzione voluta dal testo beckettiano e la realtà esterna. Ancora una volta, ascoltano un grande maestro della scena, torna implacabile l’ormai consueta domanda: perché gli attori di un tempo sono capaci, con un semplice gesto, con una particolare intonazione della voce, con una singolare capacità di porre la battuta, di provocare nello spettatore sensazioni ed emozioni profonde? Perché uno spettacolo come questo rimane vivo nella memoria, mentre altri vengono cancellati irrimediabilmente non appena si è usciti da teatro? Perché a un interprete come Glauco Mauri è sufficiente un tavolo, una sedia e un fondale nero per creare un universo di emozioni, mentre spettacoli dagli apparati complicatissimi ci dicono poco o nulla? Non è facile rispondere a queste domande, ma l’impressione è che si vada verso una irrimediabile perdita di valori artistici, che vengono progressivamente divorati da una società in cui l’immagine frettolosa, il bisogno di apparire, la necessità di produrre esperienze sempre nuove – indipendentemente dalla loro qualità – danno luogo a una sorta di tritatutto in cui ogni cosa passa, senza però lasciare dietro di sé grandi memorie.