Il vecchio e il giovane, un’altra volta
a chiare lettere | Gianfranco Franchi | giugno bis 2016 | Il Ponte rosso N° 14
Pubblicato ed aggiornato il carteggio Saba-Quarantotti Gambini
Gianfranco Franchi
A mezzo secolo di distanza dalla prima pubblicazione, a suo tempo curata da Linuccia Saba per la Mondadori, vede la luce l’edizione critica del carteggio Saba-Quarantotti Gambini: ecce Caro 48. Carissimo Saba. Lettere edite e inedite 1930-1957, a cura di Daniela Picamus, con una prefazione di Giorgio Baroni, opera pubblicata, col patrocinio dell’IRCI, dalla Libreria Antiquaria Drogheria 28 del veneto Volpato. Il carteggio tra i due artisti viene così pubblicato, per la prima volta, nella sua (appurata, ma comunque soltanto probabile) interezza; 29 sono le lettere inedite, 5 quelle precedentemente solo parzialmente pubblicate, diverse quelle in cui erano state espunte notizie relative ai problemi di salute o alle malinconie di Saba e Quarantotti, e, in qualche circostanza, erano stati omessi riferimenti puntuali ed espliciti a figure di riferimento dell’ambiente letterario o editoriale che potevano altrimenti risentirsi o stizzirsi, con ovvii rancori a strascico e presumibili rappresaglie a ruota. Morale della favola, il vecchio carteggio Il vecchio e il giovane consta, ad oggi, di 107 lettere, 76 di Saba e 31 di Quarantotti Gambini, scritte per lo più tra 1946 e 1948; tutto ciò che di nuovo o di diverso appare rispetto alla vecchia, primigenia Mondadori è illuminato da un cicciotto grassetto.
Che senso ha tornare a leggere il carteggio Saba-Quarantotti? Al di là delle questioni filologiche, dell’acuto piacere degli specialisti, della soddisfazione dei cultori dell’opera sabiana, della gratitudine del più ristretto salotto degli appassionati di cose quarantotte, l’opera in sé non ha particolari ragioni di fascino o di interesse: non è un epistolario monumentale come quello di Van Gogh, non è un epistolario particolarmente elegiaco o storicamente o politicamente rilevante, non è un inno all’ozio letterario (anzi). È tuttavia, dal punto di vista editoriale, un robusto e salutare esercizio di civiltà e di rispetto per la tradizione letteraria triestina e istriana; la curatela della Picamus è davvero appassionata e la dedizione alle perdute carte è stata certosina, e certamente encomiabile. Il problema è che Quarantotti Gambini non è quel grande narratore che Saba pensava: è un discreto romanziere borghese, di qualche interesse per questioni documentaristiche, padre di due libri di buon livello, il romanzo L’onda dell’incrociatore e il memoir Primavera a Trieste; lo scompenso e il dislivello tra i due artisti non è soltanto generazionale. È una questione di peso: è una questione di ispirazione, è una questione di respiro. A Trieste, diremmo, di “tiro”. Non è un caso se oggi questo epistolario non può più uscire per Mondadori: è forse questione di diversa fortuna critica dei due artisti. Glissiamo sulla scarsa, se non nulla, comprensione e conoscenza delle vicende dell’Istria e degli istriani da Rovigo in giù, o da Verona in là: nell’estate 2016 non c’è più nessuna speranza di insegnare agli italiani che leggere i romanzi di Quarantotti può servire per ricostruire certi perduti microcosmi istriani d’antan. O glielo presentiamo come romanziere fondamentale, cosa che purtroppo proprio non è, oppure la strada si fa tutta in salita. Aveva ragione Saba, scrivendo che lo stile di Quarantotti era intriso di “limpidità signorile”: il mio vecchio amico Antonio Veneziani, lontano discendente piacentino della ben nota famiglia Veneziani, avrebbe detto che Quarantotti era, a livello di scrittura, una signorina molto beneducata.
L’altro problema è che Umberto Saba, esattamente come nei frangenti più bassi e più grigi del Canzoniere, è spesso noioso e soffocato da una depressione spaventosa e dalla consapevolezza che niente è andato come doveva andare, da un certo punto in avanti, nella sua vita e nella sua scrittura: la mediocrità, la pallosità e la piena trascurabilità del suo Ernesto ne sono limpida testimonianza. Che libro improbabile, che sbaglio.
Veniamo ad altro. Un aspetto degno di meditazione, oggi come cinquant’anni fa, sta nel risentimento e nel distacco che i due scrittori vanno mostrando, nel carteggio, per Trieste e per i triestini: si può dire che in più di un frangente, nel corso degli anni, Saba e Quarantotti vadano ripetendo disprezzo, non soltanto rabbia e malessere, per certe dinamiche municipali: politiche, editoriali, artistiche, esistenziali in genere. Questo scollamento forse è più sconcertante, ma naturalmente niente affatto imprevedibile o incomprensibile, nel caso del triestino Saba: il buon Quarantotti era pur sempre un istriano sradicato, non certo un “mulon” di San Giacomo, e aveva ricevuto una discreta quantità di colpi bassi dalla cittadinanza per questioni non marginali, prima di imboscarsi a Venezia. Mi viene in mente questo: s’avvicina forse il giorno di raccogliere, in un saggio di grande respiro, tutte le pagine scritte contro Trieste e contro i triestini nel corso degli ultimi centoventi anni: potrebbe essere un esercizio appassionante, credo anche abbastanza divertente, e contestualmente potrebbe essere l’occasione per un buon bagno d’umiltà da parte di tutti. Un buon bagno d’umiltà accompagnato da un profondo revisionismo della visione letteraria di Trieste, e dei triestini.
Un aspetto bizzarro, ma forse ovvio considerando le tante depressioni e i tanti strapiombi malinconici dei due artisti, sta nei momenti di megalomania, di auto-rappresentazione come figure eccezionali: come quando, nel gennaio 1946, Saba scrive, tutto tranquillo, che Trieste ha dato all’Italia il suo massimo romanziere (Svevo), il suo miglior poeta (Saba), il più impressionante poeta popolare (Barni), il più luminoso e complesso dei suoi giovani narratori (Quarantotti Gambini): chiaramente l’Italia non ha capito, e “Trieste poi è lo schifo che sai […] difficile risvegliare i morti […] più difficile far ricredere sui loro errori i falliti invidiosi”: spero che l’augusto poeta non me ne voglia, se settant’anni più tardi la situazione appare meno eccezionale; Ungaretti, Montale, Caproni sono degni della stessa considerazione di Saba, se non superiore; Barni non esce dal Lisert; Quarantotti è caro, fuori da casa, a qualche elegante letterato più appassionato a questioni erotiche e psicanalitiche che a questioni istriane; Svevo è leggenda, non ci piove, nonostante Pirandello, nonostante il primo Moravia, nonostante il Deserto di Buzzati. Comunque, tornando alla megalomania: ogni tanto i due artisti si parlano con quella delicatezza e quella mutua, reciproca adorazione che tinge, molto caratteristica, i minuetti degli appartati, e degli isolati; è uno scambio di tenerezze che fa sorridere, e fa pensare che allora, proprio come oggi, l’assenza di riconoscimenti pubblici e sociali di un certo livello finiva per ridurre gli scrittori e i poeti a figure in compassionevole ricerca di comprensione, di apprezzamento, almeno di solidarietà, e questo nonostante uno dei due avesse scritto, en passant, un Canzoniere.
Due parole ancora prima di congedarmi. Non so come si possa discutere di una cosa del genere, ma dal momento che in questo libro ho sentito circolare un giudizio diverso, voglio puntualizzare, dalla mia meravigliosa posizione laterale e franca, che il più grande scrittore istriano è e rimane, naturalmente, Fulvio Tomizza, padre di Materada e della Torre capovolta, del Sogno dalmata e della Miglior vita. Se gli istriani hanno qualche speranza, a tre o quattro generazioni dall’esodo, di essere eternati, come popolo esule, come popolo martire, come figli di Roma e di Venezia, allora lo devono all’epica gentile e veridica di Materada e non certo alla sabàta Onda dell’incrociatore, cioè la già Maona. Il resto lo farà una narrazione eretica come il Martin Muma di Zanini, e forse qualche riga dei Testimoni muti di Zandel.