Il teorema che seduce
Il Ponte rosso N° 34 | maggio 2018 | MUSICA | Pierpaolo Zurlo
Matematica delle emozioni in Così fan tutte di Mozart
di Pierpaolo Zurlo
Si esce da un qualsiasi concerto con musiche di Mozart con un’eco lontana che riecheggia a lungo. C’è quell’inconsistente, inspiegabile magia che rende la musica del salisburghese unica. Non solo per mere questioni tecniche: certo, armonia, lievità dei contrappunti, originalità e peculiarità del gioco delle modulazioni, strumentazione, sempre morbida e duttile, dai toni pastello e dall’innegabile garbo, hanno tutte il loro indiscutibile peso. Ma c’è dell’altro. C’è che la musica di Mozart è matematica (non aritmetica). E della matematica ha la profonda poesia. Anzi, è, in campo musicale, la più nobile forse, la più degna mai concepita da anima umana. Ed è per questo motivo che, laddove l’anima e la mente umana entrino con essa in contatto, si genera un incanto che seduce perché trascende il grigiore quotidiano delle città, dei conflitti, dello squallore dell’esistenza ordinaria ponendoci quali spettatori ammessi per grazia a una scena perfetta, redenti dai nostri limiti. La poesia, e con essa la musica di Mozart, tracciano un ordito saldo e integro, abdicando alle mezze misure, ai compromessi, indicandoci la strada d’una purezza incongrua, come sempre è la purezza, come sempre è tutto ciò che ha un valore.
Così fan tutte (numero di catalogo altissimo, KV 588, gennaio del 1790), andato in scena al Teatro Verdi di Trieste dal 20 al 28 aprile, ha tutti gli elementi per essere senza alcun dubbio definita capolavoro. Eppure ha trovato la strada delle scene con una difficoltà inimmaginabile. Perché? Perché è un’opera di spirito buffo, sì, ma altamente sovversiva. Il Da Ponte, al secolo Immanuele Conegliano, ebreo convertito a forza in giovane età al cattolicesimo e ingabbiato nei tetri seminari dai quali nottetempo fuggiva saltando le finestre per dar sfogo con le contadine al suo «buon natural», «assai vasto e benigno», era ai tempi uno dei fiori migliori del libertinismo illuminista, in pensieri ed opere. Ed atti, assai probabilmente. Il Da Ponte, espulso da Treviso nel 1776 per il pamphlet di matrice russoviana L’uomo per natura libero, dà in Così fan tutte voce, l’unico suo originale fra i tre da lui scritti per la musica di Mozart (checché il libretto di sala sostenga, citando un po’ a sproposito Le metamorfosi di Ovidio e La grotta di Trofonio di Giovanni Battista Casti), al brulichio d’idee che mirava a smascherare la nuda natura umana e nello specifico quella femminile che alti concetti morali(stici) – che poi avranno libero corso nel secolo successivo ed ancor oggi attecchiscano nella nostra civile Europa – cercavano di nascondere e soffocare, reprimendo in ogni modo la possibilità di godimento e gioia immediate tanto per l’uomo quanto per la donna. Questa è la tesi dell’opera. La sessualità umana, analizzata per la prima volta nel dialogo filosofico Le rêve de D’Alembert (1769) di Diderot in tutti i suoi aspetti, dall’omosessualità a «les actions solitaires», diviene qui oggetto di osservazione, discorso d’arte e divertimento.
E che il soggetto, commissionato da Giuseppe II nel 1789 in seguito, si vocifera, ad un fatto di cronaca avvenuto negli ambienti della nobiltà viennese o veneta, fosse desunto, appunto dalla realtà, è un’ulteriore prova della modernità, allora, del testo. Modernità tutt’oggi vigente, se è vero che dietro l’apparentemente frivola commedia si celano spunti di riflessione profondi sul coinvolgimento erotico e sul suo costante esporsi al rischio della finzione e dell’autoinganno.
Spunti espressi con un sorriso agrodolce, ma pur sempre espressi. E che il secolo successivo, con le sue Leonore fedeli all’amour conjugal (così Pierre Gaveaux nel 1798), tanto da divenire Fidelî, e le sue Kabale und Liebe (giusta Schiller, 1784) avrebbe soffocati. Perché per le età moral(istica)mente timorate che all’orizzonte fremevano, sarebbe stato troppo rendersi complici della distruzione dei valori in cui credevano ed ai quali i propri principi aderivano. Ai quali aderiva la propria ipocrisia. E si badi come la prossima opera in cartellone nel teatro del capoluogo giuliano, L’italiana in Algeri di Rossini, ristabilisca l’equilibrio fra le coppie in modo da ripristinare la fedeltà agli impegni coniugali precedentemente stabiliti. E siamo nel 1813, nemmeno un quarto di secolo dopo.
Qui invece, questo gioiello eversivo di magico splendore, questa «mai più bella commediola non si è vista o si vedrà» (atto II, scena 15: testo emendato dallo stesso Mozart), giunge a dissolvere i valori e i pregiudizi morali del tempo: tant’è che non c’è più una morale giusta pronta a condannare o ad assolvere le coppie ma quel che Diderot avrebbe chiamato le point de vue physiologique, le «leggi di natura» secondo l’empirica filosofa Despina (etimologicamente “signora, colei che governa” l’intreccio e l’irrelarsi delle coppie) quella natura «indécente, si vous voulez» che «presse indistinctement un sexe vers l’autre» (Diderot, Supplément au voyage de Boungainville, 1772). Non poteva, questo assunto per noi oggi scontato, non provocare la reazione dell’etica dei sentimenti delle nuove classi borghesi emergenti che sovraccaricherà l’amore di alti significati, sotto i quali rimarrà fatalmente schiacciato. Non era possibile dire al pubblico di quello scorcio finale di secolo che l’amore altro non è che «diletto e spassetto» e che la gioia implicita nel gioco amoroso vale anche il rischio di soffrire le pene d’amor perduto. Gioco facile ebbe Eduard Hanslick a scrivere (1875) «ciò che dà il colpo di grazia alla deliziosa musica mozartiana di Così fan tutte, è l’onnipresente, smisurata insulsaggine del libretto. Con tutta la buona volontà, la cultura del nostro tempo non può averci più niente da fare». Non ci fossero state le riprese di Hermann Levi (fedelissimo wagneriano e quindi, per l’appunto, diametralmente opposto ad Hanslick, 1896), Mahler (1900 e 1905) e Strauss (1920) non avremmo veramente più avuto niente a che fare con questa briosa commedia.
Briosa sin dall’ouverture, che Oleg Caetani ha diretto con velocità sostenuta – perfettamente appropriata a questa vivace vicenda che chiede tempi solleciti – evidenziando la deliberata mancanza di spunti melodici e accentuando l’aspetto turbinante dei motivi che tutto sembrano rimescolare senza sosta; per passare poi con accorta musicalità ai 31 numeri che articolano la vicenda fra trii, quintetti, terzettini, marce, imponenti finali e arie. Arie soprattutto. Ben eseguite da entrambi i cast in scena, tanto quelle più cullanti e malinconiche quanto quelle più sagacemente brillanti. Su tutte svettava l’imponente arcata virgiliana del «Come scoglio immoto resta» («ille velut pelagi rupes immota resistit», Eneide, VII, 586) la cui impervia scrittura entrambe le Fiordiligi (Karen Gardeazabal e Gioia Crepaldi) hanno eseguito con robusto vigore. Integravano lo spettacolo con eleganza e pulizia le scene di Dante Ferretti ed i costumi di Francesca Lo Schiavo che hanno restituito quel colore garbato ma vivace dei tempi d’una volta, quando si innovava senza stravolgere. Intelligente e lieve, come una svolazzante commedia di questo genere richiede, la regia di Giorgio Ferrara (qui ripresa da Patrizia Frini) che ha giustamente evidenziato, ed è motivo di particolar plauso, come la vicenda non si concluda. Perché, come ha correttamente letto Ferrara, l’aritmetica dell’emozione è il rovescio dell’aritmetica dei numeri: invertendo l’ordine dei fattori il prodotto cambia. E cambia talmente che le coppie invertite hanno maggiori affinità elettive di quelle iniziali; e alla fine della vicenda la ricombinazione delle coppie non più secondo natura ma secondo convenzione sociale non potrebbe più funzionare. Il sipario cala sull’abbaglio deluso d’una felicità illimitata (giusta Da Ponte) e sulla funesta prospettiva d’una vita che, se coniugale, non può che far dire che vissero poi infelici e scontenti.
Ma nulla di male in tutto ciò: la poesia di Mozart, bella come l’ultimo teorema di Fermat, ne fa comunque emergere libertà e decoro.