Il robot perturbante 6

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Da sempre l’uomo tende a considerare vive le cose inanimate e ad attribuire umanità alle entità non umane

di Giuseppe O. Longo

 

Gli oggetti acquistano vita

 

È evidente che l’abilità creatrice dell’uomo raggiunse i suoi vertici nella letteratura, poiché le costruzioni immaginate (che non è necessario attuare) possono essere ben più raffinate e sorprendenti di quelle dei più abili meccanici. Gli artefatti reali, gli automi antropomorfi, pur nella loro stupefacente somiglianza, restavano sempre lontanissimi dal modello umano, cui li avvicinava, più o meno, la forma esteriore, ma non una puntuale somiglianza strutturale e funzionale. Le cose cambiarono radicalmente quando si venne palesando e materiando una corrente di pensiero e di ricerca legata all’informazione, che per secoli era stata quasi del tutto celata dalle più clamorose conquiste della materia e dell’energia.

Del mondo dell’informazione, che è dotato di leggi piuttosto diverse da quelle della fisica, si cominciò ad avere piena consapevolezza soprattutto grazie alle ricerche stimolate dalla seconda guerra mondiale nel campo dei calcolatori e delle telecomunicazioni. Si vide che energia e informazione, pur non essendo riconducibili l’una all’altra, interagiscono in modi vari e talora sorprendenti. Si capì che il calcolatore, lungi dall’essere una semplice macchina per far di conto, possedeva capacità enormi e tutte da esplorare proprio nell’ambito del mondo dell’informazione e della mente.

Nel 1956, proprio per influenza del computer, nasceva una nuova disciplina, cui fu dato il nome, un po’ infelice per la verità, e fonte di equivoci durevoli, di intelligenza artificiale e il calcolatore divenne il modello di elezione della mente umana. Non di tutto l’uomo, si badi, ma di quella che era considerata, e da molti è ancora considerata, la parte più nobile e caratteristica degli umani: l’intelligenza. Così, a meno di futili nostalgie corporali, si era convinti di aver raggiunto il traguardo: la costruzione dell’uomo artificiale. Sui conseguimenti e sulle limitazioni di questa prima intelligenza artificiale esiste una bibliografia sterminata, e quindi non mi ci soffermo.

 

Attualità dell’animismo

 

Da sempre l’uomo tende a considerare vive le cose inanimate e ad attribuire umanità alle entità non umane. Così la mitologia greca era gremita di ninfe, immaginarie creature viventi, abitatrici di luoghi particolari di cui erano custodi e personificazioni: dalle oreadi alle driadi, dalle naiadi alle esperidi e via enumerando. Questo atteggiamento, che possiamo chiamare animismo, non è sparito del tutto con l’avanzata della civiltà e con il progressivo affermarsi della razionalità, forse perché incarna un’esigenza profonda dell’essere umano. Anche oggi siamo inclini a largheggiare: basta che un ente presenti qualche caratteristica (o che ci ricordi qualche caratteristica) umana, ecco che siamo portati ad attribuirgli altri tratti umani, al limite tutti, quindi ad concedergli l’umanità. Tra le caratteristiche che più ci spingono a questa attribuzione sono in primo luogo l’aspetto, poi la capacità di comunicare e di esprimere sentimenti ed emozioni, per esempio il piacere e il dolore. Per quanto riguarda l’aspetto, basta pensare alla forza di suggestione che esercita su un bambino un giocattolo antropomorfo come una semplice bambola di pezza, con la quale egli intesse un dialogo come con un compagno di giochi. Per quanto riguarda le capacità comunicative, si pensi alla suggestione esercitata sugli adulti da certi programmi, anche molto elementari (come Eliza di Weizenbaum – v. riquadro), che ci inducono ad esprimerci e a confidarci, da cui si accettano consigli e ammonimenti e in cui si crede di avvertire un profondo interesse per la nostra persona.

È interessante a questo proposito un esperimento condotto dal sociologo Clifford Nass: tramite terminale, due computer con caratteristiche comunicative diverse ponevano domande di carattere personale a due gruppi di soggetti. Il primo computer andava subito al sodo, mentre il secondo agiva con più delicatezza, ponendo le stesse domande dopo alcuni preliminari. I soggetti interrogati dalla prima macchina erano molto più riluttanti a fornire le risposte di quelli interrogati dalla seconda macchina, alla quale i soggetti erano propensi ad attribuire caratteristiche comunicative ‘umane’. Questo esperimento conferma la nostra propensione ad attribuire proprietà umane alle macchine in base non al loro aspetto bensì alle loro capacità linguistiche.

Per quanto riguarda invece l’aspetto, è interessante un esperimento condotto da Sören Krach. I soggetti erano invitati a giocare contro entità diverse che di volta in volta vedevano di fronte a sé: un computer, un robot non antropomorfo, un robot antropomorfo, un essere umano. Quello che i soggetti non sapevano era che tutti gli avversari, qualunque fosse il loro aspetto, erano guidati dallo stesso programma di intelligenza artificiale. L’impegno dei soggetti e il loro piacere nel partecipare al gioco era massimo quando giocavano contro un essere umano, mentre il piacere diminuiva via via che l’aspetto dell’avversario si allontanava dall’umano: particolarmente noioso era giocare contro il computer. In altre parole, quando abbiamo di fronte un oggetto la cui natura artificiale è evidente, la nostra disposizione ad attribuirgli proprietà umane è molto bassa, mentre quanto più l’aspetto dell’oggetto è simile al nostro tanto più siamo disposti a concedergli l’umanità e di conseguenza tanto più volentieri ci impegniamo in un dialogo o in una sfida.

Per destare sentimenti di affinità, non è necessario che la comunicazione con le entità artificiali sia verbale. Può bastare una manifestazione affettiva, un impulso di compassione, una muta invocazione di assistenza, tratti e atteggiamenti che riteniamo appartengano solo a noi e che noi crediamo di scorgere nell’altro. Si spiegano così non solo i comportamenti di accudimento verso gli animali domestici, dei quali peraltro è ormai accertata la capacità empatica e affettiva, ma anche verso certi oggetti la cui unica dote di innesco sentimentale è l’aspetto esteriore o una richiesta più o meno esplicita di assistenza. Si pensi al giocattolo Tamagotchi, un “cucciolo” virtuale bisognoso di attenzione costante e di cure assidue, e al “cucciolo” robot di foca Paro, che hanno vissuto un periodo di grande popolarità (v. riquadro).

Può darsi che la nostra insopprimibile tendenza all’animismo, cioè a umanizzare le entità che per l’aspetto o le capacità comunicative ci ricordano gli umani, sia alla base dei secolari tentativi di costruire l’uomo artificiale: in passato automi sempre più simili a noi e oggi robot umanoidi, magari capaci di esprimere emozioni (e in futuro di provarle?). Questa propensione a estendere agli artefatti le caratteristiche della vita, dell’intelligenza e della comunicazione umane è probabilmente anche alla base della roboetica, per quella parte di essa che concerne il nostro comportamento nei confronti dei robot. La proiezione di caratteristiche umane sugli artefatti conferisce loro una certa aura di sacro, di intangibile.

La cautela con cui ci si deve avvicinare al sacro è così espressa da Alexander Pope nella sua poesia An Essay on Criticism (1709): For fools rush in where angels fear to tread (Perché gli stolti si precipitano dove gli angeli temono di posare il piede), un verso spesso citato da Gregory Bateson.

 

(6-continua)

 

ELIZA

 

Il programma Eliza, allestito nel 1964 da Joseph Weizenbaum (allora ricercatore del MIT), consente alle persone di conversare in linguaggio naturale con un computer. Il dialogo avviene tramite telescrivente: l’utente batte una frase e passa la parola a Eliza, che analizza la frase e risponde battendo a sua volta una frase. In Eliza non c’è nessun barlume d’intelligenza: il programma va semplicemente in cerca di parole chiave come “madre” o “depresso” e poi pesca una domanda appropriata da un repertorio prefissato; se questa tattica non funziona, produce una frase generica tentando di riavviare la conversazione. Il programma dà all’interlocutore l’impressione di essere uno psicoterapeuta comprensivo benché piuttosto inerte: pone domande vaghe, parla poco e per un po’ risulta piuttosto convincente. In realtà quello che sembra un dialogo è un monologo dell’interlocutore umano, il quale dà senso a domande e risposte solo sue, comportandosi da animista. Eliza ebbe un enorme successo: chi conversava con “lei” spesso dopo le sedute provava sollievo. Weizenbaum, tuttavia, molto turbato da questo successo, ritirò il programma e decise di schierarsi contro l’intelligenza artificiale, che riteneva pericolosa per gli umani. Le preoccupazioni di Weizenbaum sono condivise oggi da molti scienziati, che temono uno sviluppo eccessivo dell’intelligenza artificiale, che potrebbe giungere a soggiogare gli umani.

 

 

 

TAMAGOTCHI

Tamagotchi è un piccolo giocattolo elettronico giapponese, inventato nel 1996 da Aki Maita. Il proprietario è tenuto a prendersi cura sin dalla nascita di questo essere, dargli il necessario per farlo crescere ed essere suo amico; inoltre bisogna farlo vivere il più a lungo possibile e curarlo in caso di malattia. Mediante tre tasti, il ‘padrone’ interagisce con il Tamagotchi, per esempio dandogli da mangiare, giocando con lui, curandolo se si ammala, nettandone le deiezioni. Bisogna poi controllarne l’età, il comportamento, la fame, il peso, la felicità e altre caratteristiche, tutte segnalate con un punteggio; sgridarlo se si rifiuta di obbedire, per esempio quando non vuol mangiare o giocare. Paro è un peluche robotico, anch’esso giapponese, che risponde al suo nome, reagisce alle carezze, muove corpo e testa, sbatte gli occhi, emette suoni, fa le fusa, mostra fastidio o stanchezza, e riesce perfino a imparare alcune parole. Paro è un potente catalizzatore di comunicazione emotiva, in grado di stimolare sentimenti di affetto, tenerezza, mansuetudine, e accudimento, specie negli anziani affetti da demenza.