Il poeta cantastorie

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In Gente mia Claudio Grisancich percorre per intero la sua più recente vena narrativa

 

Dalla prefazione al volume edito da Hammerle editori, qui riadattata per la finalità informativa cui si conforma:

 

E poi se la gente sa e la gente lo sa che sai suonare suonare ti tocca per tutta la vita e ti piace lasciarti ascoltare

 

Fabrizio de’André

Jones il suonatore

(da Edgar Lee Masters, Antologia di Spoon River)

 

 

 

La pubblicazione di Gente mia, fortemente voluta dall’editore in occasione dell’ottantesimo compleanno del poeta, non appare soltanto opportuna, ma addirittura necessaria, perlomeno a chi desideri farsi un’idea più aggiornata ed esaustiva della poetica di Claudio Grisancich e dei più recenti esiti di essa.

Il libro, difatti, percorre quasi per intero tutta l’ultima produzione, in dialetto e in italiano, del poeta triestino, ma il raccogliere tali materiali in un solo volume non risponde solo a una mera esigenza di adeguamento cronologico dell’opera dell’autore, ma induce anche ad alcune considerazioni critiche che in parte sono poste in rilievo qui di seguito, in parte sono affidate a Fulvio Senardi, autore del saggio riportato in postfazione.

L’insieme dei testi pubblicati, in larga parte inediti o non più disponibili sul mercato librario, sono tutti successivi al volume Conchiglie: sessant’anni di poesia, Testi in dialetto 1951-2011, (Lint, Trieste 2011), che raccoglieva tutti i testi in triestino di Grisancich. Il punto di partenza del presente volume, invece, si colloca temporalmente nel 2013, data di pubblicazione di Album (Hammerle editori), silloge che segna con ogni evidenza una svolta decisa nell’agire poetico dell’autore, che abbandona – o sospende? – quasi del tutto l’ispirazione lirica che aveva fin lì connotato la sua opera in versi per concentrarsi su un registro di carattere decisamente narrativo.

A margine è da annotare che il nuovo e più recente periodo, successivo alla pubblicazione di Conchiglie, registra un’accelerazione formidabile nella produttività di Grisancich. Come era stato posto in evidenza nella prefazione di Album, fino al volume della Lint, sulla base di un grossolano quanto chiarificante calcolo statistico, la media annua di componimenti in versi licenziati dall’autore era di sole sei unità. Da allora ad oggi, invece, sale a poco meno di quaranta – salvo miei errori ed omissioni – la media riferita ai soli testi pubblicati, inclusi quelli del nuovo volume. Forse il dato è del tutto ininfluente, ma mi sembra che esso da un lato testimoni di un’attenzione sempre più tenacemente concentrata su quanto l’autore intende descrivere, dall’altro rilevi una necessità di attingere a una memoria che non è che in parte personale, per dare spazio a una visione più collettiva, che dà voce a una pluralità di personaggi. A tale affollarsi sulla scena della narrazione corrisponde, quasi di necessità, un’accentuata serialità di rappresentazioni che moltiplica la poliedrica visione di realtà, peraltro facilmente riconducibili ad unità. è il caso, emblematico, di Album, dov’è raffigurata la sfaccettata articolazione di un ambiente, di plurime personalità e di un’epoca vissuti dal poeta nella sua prima infanzia, o addirittura antecedenti ad essa, per quanto a Grisancich bambino pervenne dalle storie narrate dagli adulti e, com’è facile intuire, avidamente ascoltate e fatte proprie dal piccolo ascoltatore, fino a risultare componenti di una sua personale mitologia domestica, affondata però in un’altra più estesa, del quartiere e della città. A ben vedere, dunque, l’unitarietà dell’ispirazione e del linguaggio riduce la raccolta dei testi di Album a farne concettualmente un poemetto, il che almeno in parte spiega la constatazione che più sopra si è svolta circa l’impennata quantitativa della produzione dell’autore.

Nonostante un deciso scarto in favore di un altro registro linguistico – l’italiano al posto del dialetto – come pure l’abbandono del verso sostituito da una prosa intrigante ed evocativa, il successivo testo che è presentato in Gente mia, intitolato La vita dentro. Elogio del punto e virgola, si colloca, sia pure parzialmente, sulla scia di Album, riducendo l’angolo visuale a una dimensione più intimamente familiare, che tuttavia non rinuncia ad allargarsi per includere quanto si muove tutt’attorno la minuscola triade di madre, padre e figlio negli anni dell’infanzia, che includerà poi la figlia negli anni di una sofferta e problematica maturità. Gli strumenti per tali estroflessioni dall’ambito familiare sono offerti all’autore dal ricorso a una memoria ancora una volta collettiva, offertogli dal testo di canzonette in voga negli anni della sua formazione (Lilì Marlene, o Solo me ne vo per la città) oppure dalla memoria di film di vasto successo popolare, quale Don Camillo, ad ancorare l’esistenza che velocemente si sgrana a un tempo e anche a un luogo, a un paesaggio, a sua volta ancorato alla prospettiva azzurra di un mare spiato da un abbaino della Via San Michele, oppure, lo stesso mare, ma profondamente diverso, che s’interseca tramite i canali tra le case senza cantine di Venezia.

Ancora indugiando in una scrittura italiana in versi, ovviamente liberi, è la volta di un poemetto, un petite poème familial, quale si dichiara Il bagno alla “Diga”, storia, una volta di più, della famiglia d’origine del poeta, del padre e soprattutto della madre, colti entrambi negli antefatti della vita di Grisancich, l’incontrasi nel 1935 a un ballo in una sala popolare di periferia, il fidanzamento, il lavoro duro, un matrimonio inizialmente osteggiato dal padre di lei, alla fine raggiunto, e poi lei in fabbrica, lui al volante di un camion e finalmente l’arrivo del bambino, praticamente alla vigilia del secondo conflitto mondiale. Affiora allora il mondo dell’infanzia già altre volte evocata, il mare spiato da un abbaino che i lettori già conoscono, l’incommensurabile avventura di un bagno di mare, in compagnia della madre, allo stabilimento della Diga, quella eretta a protezione del Porto Vecchio di Trieste, ben visibile dalla radice del molo Audace da dove partiva un minuscolo battello che la fantasia del bimbo trasfigura, imbevendosi di avventure nel breve tragitto. Sembrerebbe un idillio, ma non si limita a quello, né per le dimensioni del testo, né per le sue implicazioni di nostalgico vagheggiamento di una perduta età dell’oro.

La pubblicazione successiva riguarda Storie de Fausta, un poemetto – quasi un breve romanzo storico in versi – che ripercorre la passeggiata e il flusso di pensiero di una sarta d’alta moda di un certo successo per le vie di Trieste, pretesto occasionale che consente a Grisancich di immergersi nella narrazione della biografia e della psicologia non soltanto della protagonista, ma anche degli altri che ne intersecano il percorso umano. Tra di essi, una città rivisitata nella sua topografia e nella sua storia recente, quella che interseca la vita di Fausta, classe 1902, non casualmente l’anno dello sciopero dei fuochisti del Lloyd Austriaco, nelle cui giornate è ambientato il dramma teatrale A casa tra un poco scritto da Grisancich a quattro mani con Roberto Damiani e ora pubblicato nella Libreria del Ponte rosso. «Analogamente alla datazione, anche le indicazioni topografiche risultano minuziosamente articolate, riportando i nomi delle vie e altri toponimi che consentono di ricostruire con nitida precisione l’itinerario della lunga passeggiata che fa da sfondo alla narrazione, come pure singoli passaggi della ricostruzione biografica di Fausta, mettendo in risalto quella che è il personaggio implicito che accompagna la protagonista, cioè Trieste: una volta di più, dunque, il lettore viene messo a confronto con Trieste e una donna, un tacito, forse inconsapevole, omaggio alla grande vocazione letteraria e poetica di questa straordinaria città ad opera di un poeta che – senza boriose ostentazioni – è il degno erede di una tradizione culturale altrettanto straordinaria», com’è scritto nella prefazione al bel volumetto edito nel 2017 da Vita Activa.

Quasi un contraltare ironico e molto maschile Storia de Gino e altre ancora, scritto nel 2016 ma finora inedito che si apre, in forma di compatto poemetto, sulle miserie e le malinconiche vicende dell’eroe eponimo, puto vecio, una eroicomica personalità schiantata sul nascere da una madre possessiva e assolutista negli affetti, che si ritrova anziano a riflettere sconsolato sulla sua vita di uomo vergine, puntellata appena da alcune risibili certezze, il diploma di perito edile appeso alla parete, il diminutivo Gino riservato esclusivamente alla madre, la fede mussoliniana caparbiamente coltivata per acritica fedeltà alla memoria di un padre finito nelle foibe per essere andato in giro in uniforme di ufficiale della RSI in una Trieste ormai occupata dai partigiani di Tito. Il resto della raccolta si sofferma a raccontare le storie di altri personaggi, in prevalenza maschili e spesso ossessionati dall’antica brama, che Saba voleva nell’antica carne dell’uomo da sempre per suo strazio infitta.

Completano la raccolta dei testi poetici raccolti nel volume altre due sillogi finora inedite, Est nord est. Mantra della bora, quasi una celebrazione del vento che segna di sé l’identità stessa della città giuliana e infine L’estate del ’54 (e poco tempo dopo), ideale prosecuzione – in italiano – di Album, ambientata in Via Ruggero Manna, a sommarsi a quel precedente in una ideale prosecuzione di una autobiografia aperta ad altre numerose figure e situazioni che attengono a una stagione più avanzata di Grisancich, tra adolescenza e prima giovinezza, vissute in un ambito più piccolo borghese (da questo, forse, la scelta di mutare registro linguistico).

Nell’insieme, i testi raccolti in questo volume compongono una nuova stagione creativa del poeta triestino, che in essa si esercita con un rinnovato bagaglio di scrittura, irrispettoso di convenzioni letterarie fin dalle scelte di metrica e di linguaggio, disinibito e aderente a una parlata che deborda talvolta anche nello scurrile per un’esigenza di realismo che finisce per rendere Grisancich un poeta autenticamente popolare, che si misura, nei suoi esiti così felicemente narrativi, con un piccolo Decamerone triestino cui l’acutezza di comprensione fraterna per i personaggi che lo compongono conferisce spessore e rilievo.

 

Walter Chiereghin