Il moro di Venezia a Trieste
Il Ponte rosso N°86 | Luigi Capaldi | MUSICA | novembre 2022
Otello inaugura la stagione 22/23 del Verdi
di Luigi Capaldi
L’Otello ha inaugurato il 4 novembre scorso la stagione lirica del Teatro Verdi. Il capolavoro senile del nostro più grande operista era stato rappresentato per la prima volta a Trieste il 25/3/1889 su questo stesso palcoscenico (allora Teatro Comunale) due anni dopo la prima milanese del 5/2/1887.
Verdi non componeva un’opera nuova dall’Aida del 1871. Le pazienti sollecitazioni di Giulio Ricordi e la collaborazione con Arrigo Boito, condussero, dopo sette anni di lavoro, a un’opera eccentrica rispetto alla produzione precedente e non inquadrabile nell’ambito dei caratteri contemporanei di genere. Marginale è il wagnerismo che qualcuno vi ha ravvisato («canto e melodia rimangono per me il verbo principale», dice Verdi a Eduard Hanslick nel 1893). Scompaiono i numeri chiusi e le forme tradizionali, mentre il canto scorre, dal parlato, all’arioso, alla melodia spiegata, seguendo esclusivamente esigenze drammatiche e scavando, insieme all’orchestra, nella psicologia dei personaggi fino al subcosciente.
La tragedia si compie parallelamente su due piani strettamente tra loro connessi: uno sociale e politico, l’altro interiore e psicologico. Il primo ci mostra sulla scena la Venezia rinascimentale e in controluce la società europea di fine Ottocento, con i propri valori e le proprie certezze in crisi, il secondo coglie nei moventi individuali la radice di tale crisi. Bastano le prime scene per comprenderlo. Infuria una terribile tempesta (reale e metaforica) e la sorte della nave veneziana in battaglia col nemico musulmano è incerta. Il popolo ne segue le vicende trepidante dalla riva. Poi la vittoria, la salvezza, la gioia collettiva e con essa, subito, la festa, l’ebbrezza, la violenta zuffa, l’odio intestino. Violenta peraltro è già la gioia per la vittoria, con l’«Esultate» di Otello e il grido del popolo: «Vittoria! Sterminio!» Mentre ancora infuria la tempesta, Jago spera nel naufragio e, subito dopo, prima trama insieme a Roderigo, che desidera Desdemona e perciò odia Otello, poi spinge al vino e alla zuffa Cassio di cui invidia il grado. Così i moventi interiori individuali si intrecciano con quelli sociali e politici. Jago, come il mozartiano don Giovanni, sa far emergere il fondo torbido della coscienza dei personaggi a cui si accosta: la propensione al vino e il violento orgoglio di Cassio, l’invidia di Roderigo, la cieca violenza di Otello. Jago alimenta i loro rancori ma non li crea: sono già nei loro cuori. Se Jago è il polo nichilista dell’universo dell’Otello, quello opposto è Desdemona. Lo è anche anche vocalmente: «è una parte ove la linea melodica, non cessa mai dalla prima all’ultima nota. Come Jago, non deve che declamare, come Otello ora guerriero, ora amante appassionato, ora accasciato fino alla viltà, ora feroce come un selvaggio deve cantare e urlare: così Desdemona deve cantare sempre sempre» (Verdi a Giulio Ricordi, 11/5/1887). Desdemona non è solo una donna che ingenuamente ama, è anche la voce di un’umanità inascoltata e soffocata, una voce altra rispetto a quella di Jago. Otello oscilla fra questi due poli; percorre un tragitto che lo conduce dalla voce di Desdemona a quella di Jago; diviene progressivamente sordo alla prima e intento a trovar vera la seconda. Verdi sottolinea fin dal grido di vittoria, «Esultate!», con cui appare in scena, che è anche «feroce come un selvaggio». È il canto di Desdemona che lo richiama dalle memorie di guerra all’amore, che lo spinge a cantare nel duetto del primo atto, mentre lui, sebbene in estasi, invoca la morte perché, dice, «Tale è il gaudio dell’anima che temo, / Temo che più non mi sarà concesso / quest’attimo divino». E in ciò è già l’idea della purezza che può essere imbrattata, anzi, che fatalmente lo sarà. Otello delira già prima che Jago lo spinga al delirio. Vocalmente Otello canta seguendo la voce, che ama, di Desdemona, ma urla quando Jago prevale, fino a divenire una sola cosa con lui nel duetto che conclude il secondo atto. Prima ancora di avere la falsa prova del fazzoletto è già con lui anima e corpo. Da queste premesse l’azione si sviluppa consequenziale fino alla catastrofe finale.
Otello mancava al Verdi dal 2010. Inaugura, dopo la pandemia, una stagione che tutti si attendono di ritorno alla normalità e che, ha spiegato il sovrintendente Giuliano Polo alla stampa locale, si propone di riportare il pubblico a teatro. Per raggiungere questo obiettivo il Verdi ha scommesso principalmente sul ritorno di Daniel Oren, direttore apprezzato in città dal suo esordio nel 1976 e presenza ricorrente fino alle contese giudiziarie del 2007. L’Otello segna la riconciliazione. Una riconciliazione sofferta che è un evento già in sé. Oren in effetti dimostra una conoscenza profonda della partitura e del valore drammaturgico della musica, sa guidare i cantanti esaltandone le doti senza perdere il senso dell’insieme, conduce con sicurezza l’orchestra, che ha fornito una eccellente prova di sé, e il coro, altrettanto eccellente, ben preparato da Paolo Longo, con l’apporto dei Piccoli Cantori della città di Trieste diretti da Cristina Semeraro. La sua lettura del testo è tradizionale, ma efficace.
I cantanti che si sono esibiti nell’ultima recita del 15/11/2022, per lo più giovani, ma con significative esperienze, sono stati capaci di omogeneità e coerenza espressiva. Arsen Soghomonyan è parso vocalmente sicuro (bene l’Esultate), contenuto negli eccessi di rabbia, cristallino nelle parti melodiche. Lianna Haroutounian ha donato leggerezza e drammaticità a Desdemona, affrontando senza incertezze e con voce salda sia i fraseggi che il canto spiegato (notevole l’Ave Maria). Elia Fabbian è uno Jago, senza eccessi, bravo nella recitazione, con una voce sicura nelle regioni centrale e bassa del registro, ma un poco incerta in quella acuta. Ha bene interpretato la parte di Emilia, sia vocalmente che sulla scena, Marina Ogii (Emilia). Bravi anche Mario Bahg (Cassio), Enzo Peroni (Roderigo), Giovanni Battista Parodi (Lodovico), Fulvio Parenti (Montano) e Giuliano Pelizon (araldo).
La regia di Giulio Ciabatti (una solida carriera e una proficua collaborazione con il Verdi) rispetta l’ambientazione del libretto (vi contribuiscono anche i sobri costumi d’epoca di Margherita Platè) e ne sottolinea l’impianto classico mediante la scena unica, con colonnato e pedana nera al centro, che ribadisce l’aderenza alle unità aristoteliche previste da Boito. La lettura che egli fa dell’opera è essenzialmente sociale e politica: non un melodramma della gelosia, ha spiegato in conferenza stampa, ma una tragedia dell’esclusione sociale dell’estraneo in nome della «rispettabilità». «Otello e Desdemona», dice il regista, «sono vittime degli sguardi del mondo che non potrà mai accettare una coppia del genere», mentre Jago, aggiunge, assume una funzione strutturale, anziché individuale: «traduce sul piano personale un tema politico». Una lettura che, pur essendo parziale (poiché trascura una parte importantissima del testo) è coerente. Peccato però che essa non abbia un chiaro riscontro in ciò che si vede in scena, infatti l’unica scenografia presente ha scarsa capacità allusiva a ciò che intende rappresentare. Vi suppliscono per quanto possibile, soprattutto nel primo atto, le luci di Fiammetta Baldiserri. Il sovrintendente Giuliano Polo nella conferenza di presentazione ha lodato «un allestimento e una regia sobri e classici che non interferiscono con la musica». Parole che possono essere prese alla lettera. La rappresentazione è facilmente intelligibile e tradizionale. Il pubblico ha riempito il teatro ed ha applaudito entusiasta.