Il mondo di Palčič tra materia e fantasia
giugno 2019 | Il Ponte rosso N° 46 | visti da vicino | Walter Chiereghin
Intervista a Klavdij Palčič, poliedrico protagonista dell’Arte a Trieste
di Walter Chiereghin
La casa è abbarbicata su una stretta traversale di una delle più ripide salite di Trieste, poco sotto la strada Napoleonica, meta di mille passeggiate dei triestini. Mi viene ad aprire la signora Annamaria, Anni (o Anny) per gli amici, accogliente e ciarliera. Una vita vicino a Klavdij Palčič: «Siamo assieme da quando avevamo quindici anni io, diciotto lui… ». Mi fa strada, scusandosi per un inesistente disordine, in un labirintico percorso, tra dipinti appesi alle pareti e tele accatastate nello studio, sculture in bronzo, come un museo, pieno di vivacità e di straordinaria travolgente bellezza. «Quando abbiamo acquistata la casa era un rudere, ci sono voluti sette anni per renderla abitabile. Abbiamo poi acquistato un altro rudere, adiacente al primo, e siamo andati avanti nell’opera di ricostruzione. Qui ha fatto tutto Claudio, dal progetto al portone, al caminetto, al grande tavolo di legno intarsiato del piano di sopra… ». Un po’ l’ascolto, un po’ no, distratto ad ogni passo da quanto mi vedo attorno, opere polimateriche del periodo informale dei lontani anni Sessanta, poi le tracce di un’inesausta ricerca creativa, con l’uso di materiali diversi: legno, gomma, metallo, plexiglass colorato, per arrivare alle grandi tele più recenti, e poi grafiche nelle quali riconosco gli stilemi che più mi sono famigliari, i dipinti con cui il suo lavoro ha scavalcato la soglia del secolo per avventurarsi nel nuovo millennio.
Palčič non sta bene, da tempo, e mi accoglie sdraiato in poltrona al piano di sopra, con un sorriso che non ha perso nulla del fascino di un tempo.
Cominciamo da lontano: hai fatto il liceo scientifico qui a Trieste, una scuola slovena, sembravi destinato a Scienze politiche, invece ti sei iscritto al liceo artistico a Venezia. Come mai questo cambio di rotta?
Diciamo prima di tutto che ho fatto lo scientifico perché era una scuola superiore dove il disegno e la storia dell’Arte erano materie previste dai programmi, a differenza, per esempio, del liceo classico.
Quindi dipingere è stata una tua vocazione che veniva da lontano?
Direi di sì, da quanto mi ricordo mi era sempre piaciuto disegnare. Ad ogni modo ho avuto la fortuna di avere in August Černigoj un insegnante di eccezione, al liceo, che naturalmente ha contato molto nella mia formazione. A Venezia ho consolidato quanto avevo appreso qui, e inoltre il diploma mi era necessario per continuare con l’attività di insegnante, che avevo intrapreso con saltuarie supplenze alle scuole medie, che assieme ad altri occasionali lavoretti come grafico, la progettazione di un manifesto, il disegno di un’insegna, mi consentivano di portare a casa qualche soldo. Capii allora che avrei potuto guadagnarmi da vivere per mezzo di queste cose che ritenevo di saper fare, l’insegnamento da un lato, il disegno nelle sue vari declinazioni creative dall’altro. Per questa ragione, conseguita nel 1964 la maturità artistica a Venezia, sostenni l’esame di Stato e proseguii la mia carriera d’insegnante, che esercitai nelle scuole medie di Trieste e di Gorizia
Insegnare ti lasciava del tempo a disposizione per la tua attività di artista…
Avevo iniziato ben prima di completare il percorso scolastico, sia a dipingere che, soprattutto, a osservare quanto mi si muoveva attorno nel mondo dell’arte: frequentavo tutte le gallerie, non perdevo una mostra, perché è importante confrontarsi con le modalità degli altri, c’è sempre qualcosa da imparare, una lezione da far propria. Ricordo, ma è solo un esempio, quanto mi colpì il lavoro di Oreste Dequel, hai presente?
Certo, possiedo anche alcuni suoi disegni, dei bozzetti per le sculture che eseguì per lo stadio di Lecce.
Ecco, proprio quella sua concentrazione sul tutto tondo, le figure, anche quelle disegnate, che si identificano attraverso linee e volumi rotondeggianti… sono osservazioni che poi mi sono ritornate utili, soprattutto in scultura, dove ho compreso che un vuoto, faccio per dire quello che si manifesta tra un braccio ripiegato e il suo tronco, ha la forza espressiva di un pieno. Secondo la lezione di Henry Moore. Ma è solo un esempio tra molti altri.
Ecco, mi rendo conto che la tua produzione di scultore non è stata un fatto occasionale, ma ti ha lungamente accompagnato nel tuo percorso creativo.
Sì, è così. Mi sono divertito anche, a fare questi bronzetti, e poi, soprattutto su commissione, pezzi di maggiori dimensioni, soprattutto ritratti, normalmente di scrittori o di personalità in qualche modo illustri, che sono andati a celebrare questi personaggi presso scuole o uffici pubblici. I lavori che facevo per mio conto, sono quasi sempre prodotto di una tecnica cosiddetta “a cera persa” che, come saprai, è una tecnica antica, che consiste nel modellare nella cera quanto poi si intende fondere, ed ha il vantaggio di consentire allo scultore un controllo preventivo su quanto verrà poi fuso in bronzo.
Tu sei noto soprattutto in quanto pittore, ma invece hai fatto tutto quanto era possibile fare in ambito artistico: sei stato scultore, appunto, ma anche grafico, illustratore, creatore di scenografie e costumi per il teatro; hai lavorato molto anche in campo editoriale, soprattutto illustrando libri per l’età evolutiva. E non solo per quella: penso al librino di Miroslav Košuta, Diario dei nidi di rondine, dove le tue immagini esaltano il testo che ha scritto in prosa il poeta, tuo amico.
Beh, diciamo che si tratta di ambiti analoghi, dov’è continua la tentazione di sconfinare in qualche cosa di simile a quello che fai. E poi, certo, cedi volentieri alle sollecitazioni che ti vengono dagli altri, soprattutto quando, come nel caso di Košuta, si tratta di amici di lunga data.
Venendo in casa vostra ho avuto modo di vedere anche una quantità di cose che hai fatto manualmente, la casa stessa, e poi elementi di arredo, quel tavolo meraviglioso… lo consideri un campo anch’esso adiacente al tuo lavoro diciamo così “maggiore”?
Sì, devo dire che ho sempre ricavato una soddisfazione particolare nel fare, nel maneggiare gli attrezzi, nel manipolare la materia e piegarla al desiderio che ho di esprimere con essa il disegno che ho in mente, di stare ad osservare anzi come essa modifichi il suo aspetto sotto le mie mani. Si tratta per me di qualcosa di molto vicino al lavoro che tu definisci “maggiore”.
In effetti in quasi ogni tuo dipinto pare di scorgere in ogni pennellata il gesto della tua mano che brandisce il pennello. La forza, la sicurezza e l’energia del gesto che è strumento per assecondare un tuo pensiero e una tua emozione. Ma ne parleremo dopo, se permetti: proviamo a riprendere il filo. Quando hai iniziato ad esporre?
Presto, mentre ancora ero studente, ho partecipato a numerose mostre collettive, ma la prima personale l’ho fatta a pochi passi da dove abitavo, nel rione di San Giovanni. Era, credo, il 1961 ed ho esposto al campo sportivo “Primo maggio”, in alcuni locali che ospitavano un circolo sloveno nell’edificio di supporto al campo di calcio.
San Giovanni doveva essere allora un rione popolato da una consistente comunità slovena: era il territorio in cui abitò Vladimir Bartol, sua madre Marica, e, più di recente, anche Marko Kravos, per esempio.
Certo, era così. Io, con la mia famiglia ovviamente, abitavo in via Brandesia, nella parte alta di quella strada in salita. Eravamo di condizione sociale che definirei modesta. Papà faceva il contadino, lavorava la terra, che naturalmente non era sua, un campo che aveva preso in affitto. Quando io ero vicino ai vent’anni, acquistò una macchina, una Fiat 1100 familiare, ma essendo io l’unico in famiglia con la patente, lo accompagnavo ogni mattina, alle sei, a caricare le casse di verdura che poi vendeva al mercato all’ingrosso, sulle Rive.
Fu sempre negli anni sessanta che ti ritrovasti a far parte del gruppo “Raccordosei – Arte viva”, assieme a Nino Perizi, Enzo Cogno, Miela Reina, Bruno Chersicla e Lilian Caraian?
Sì, quella fu una stagione importante, per noi sei che provenivamo da esperienze diverse e che saremmo poi approdati a risultati ancora diversi, ma anche per quanti altri ruotavano nell’ambiente di Arte viva, da Carlo de Incontrera a Luciano Semerani e Gigetta Tamaro, a Giulio Montenero: eravamo tutti motivati dalla volontà di esplorare,in libertà, vie nuove di espressione nei diversi ambiti nei quali allora ci esprimevamo. Tutto era nato nella galleria “La Cavana”, aperta da Cogno e dalla Reina, che aveva proposto opere dell’avanguardia italiana di allora, destando scalpore in un ambiente culturale ancora abbastanza ingessato dopo gli anni della guerra.
“Raccordosei” fu dunque un’esperienza importante, che in qualche misura modificò il panorama artistico triestino. In quel piccolo gruppo di artisti, tu eri l’unico sloveno: aveva o no un peso questa tua identità nel lavoro che venivi svolgendo?
Beh, dobbiamo dire che il contesto politico era allora assai ostile, e tale è rimasto per molti anni. Purtroppo, ancora oggi continua ad esserlo, almeno in una parte della popolazione. Persino nella designazione non eravamo indicati come sloveni, ma genericamente come slavi (quando non invece come s’ciavi). Gli eventi che si erano succeduti dal primo dopoguerra in poi hanno lasciato una lunga traccia anche nelle approssimazioni linguistiche. Mi è capitato di sentirmi definire slavo-comunista, sebbene non mi sia mai iscritto a un partito… Certo, ero figlio di un partigiano…
Permettimi di dire che non mi pare affatto un demerito…
Certo che no, ne sono anzi orgoglioso.
Immagino abbia militato nelle formazioni dell’esercito di Liberazione Jugoslavo. Abitavate qui a Trieste durante il conflitto o eravate andati via?
No, abitavamo sempre qui: mio padre era sposato, con figli, militava in formazioni politiche clandestine, ma senza lasciare la città, e senza essere inquadrato in formazioni regolari, se non negli ultimi giorni prima della liberazione della città. Ricordo che era sparito senza dire nulla, io, allora bambino di cinque anni, lo andavo cercando assieme a mia sorella, senza che naturalmente mi riuscisse di trovarlo. Fu ai primi di maggio del ’45 che vidi un partigiano che proveniva dal fondo della via Brandesia, avanzando verso di me, con un fucile a tracolla e la titovka, la bustina con la stella rossa, sul capo. Da lontano stentai a riconoscere mio padre, poi gli corsi incontro e ci abbracciammo, tornò a casa con me, si sedette, iniziando a raccontare, ma io ero allora molto più affascinato dal fucile che lui aveva poggiato in un angolo che dalle sue parole.
Torniamo a parlare di arte. Mi dicevi di quella prima mostra a San Giovanni: cosa esponevi, in quel tuo esordio, erano soggetti figurativi o astratti?
Mah, direi che si trattava delle due cose mischiate assieme…
Come, sempre, come oggi, dunque!
In un certo senso, sì. Puoi osservare in molti dei miei quadri la copresenza di una parte realistica, di un particolare anatomico assai spesso, e di un’altra componente non ancorata alla realtà immediatamente percepibile con i sensi, le aree normalmente invase dal colore, dal movimento del pennello sulla tela e dallo stesso spessore materico del colore, che rimandano a un altro pensiero, a una diversa e più complessa emozione.
Quanto si avverte sempre, pure in mezzo al turbine emozionale offerto dal colore e dall’energia della composizione, è la presenza e la centralità dell’uomo, sia quando è direttamente rappresentata, appunto, da un particolare anatomico, da una mano o dalle gambe, sia quando è sottintesa o richiamata simbolicamente.
è proprio così: l’uomo, la condizione umana è il centro del mio lavoro, il punto da cui parto senza nemmeno avere chiara la percezione di dove poi intendo approdare. Io ritengo che la prima garanzia di qualità in un’opera d’arte sia data a chi la realizza dal percepirla come un momento per lui stesso emozionante, dove le modificazioni che intervengono sulla tela non solo offrono una soddisfazione immediata di chi al variare di un gesto vede corrispondere un cambiamento in quanto si vede davanti, ma è di per sé fonte di ulteriori suggerimenti, di suggestioni che incanalano l’agire successivo.
Se posso permettermi, direi che in te, nel tuo lavoro, questo avvertimento avviene in maniera speculare in chi osserva la tua opera finita, nella possibilità di percorrere a ritroso l’itinerario che tu hai seguito, fino a condividere con te almeno una parte dell’emozione che tu hai inteso rappresentare.
Ecco, quando succede questo si realizza la massima soddisfazione cui io posso ambire, è quanto dà senso a tutt’intero il mio lavoro.
Devo dirti che con te questo succede quasi sempre. Per arrivare qui ho percorso una ventina di metri passando per questa straordinaria galleria che avete in casa e ad ogni passo, ogni volta che il mio sguardo indugiava su un tuo dipinto, avvertivo forte questa sensazione. Leggevo, mi sembrava di aver letto un messaggio che tu avevi in precedenza scritto per me.
Parliamo ancora a lungo, quasi per stemperare l’intensità delle ultime battute che ho trascritto. In seguito mi accorgerò, ascoltando la registrazione della nostra conversazione, di aver parlato assai più di quanto avrei dovuto fare, abusando della pazienza del mio interlocutore. La prossima volta, dovrò stare più zitto. Salutato Palčič, Anni mi accompagna alla macchina, continuando a parlare di questo loro rapporto lungo sessant’anni. L’abbraccio alla fine si impone spontaneamente, tanto che decidiamo poi di darci del tu. Mentre compio in macchina una manovra complicata per andarmene, penso a quanta parte della grandezza dell’uomo che ho appena lasciato risieda nella piccola donna che gli è accanto, come è stato per tutta la loro vita.