Il cliente di Asghar Farhadi
cinema | Gianfranco Sodomaco | Il Ponte rosso N° 22 | marzo 2017
Storia problematica di un’aggressione
di Gianfranco Sodomaco
Il cinema iraniano, nonostante i problemi di musulmana censura, continua a proporsi alla platea internazionale. L’ultima novità è Il cliente, di Asghar Farhadi, regista di Una separazione (2011), che ha ottenuto premi a destra e a manca (Orso d’Oro a Berlino, Golden Globe, Oscar, César), dunque un autore più che affermato. Grande ammiratore, allievo del padre del cinema iraniano, del ‘realistico’ Abbas Kiarostami, anche lui ogni tanto va a girare all’estero, in Francia in particolare, dove ha realizzato, qualche anno fa, Il passato con Bérénice Bejo. Ma veniamo a Il cliente, premiato a Cannes per la migliore sceneggiatura e migliore attore (Shahab Hosseini) ed entrato a far parte della shortlist/cinquina degli Oscar quale migliore film straniero.
La storia è quella di una coppia che, progettando un figlio, deve spostarsi dall’appartamento in cui abita perché sta crollando. Trovano la nuova casa grazie al loro amico Babak, che recita con loro. Sì perché Emad e Rana (Emad è anche un insegnante) sono due attori e in quel periodo stanno interpretando Morte di un commesso viaggiatore di Arthur Miller. Un giorno avviene ‘il fattaccio’ che diventerà il nocciolo della storia. Rana si trova sola in casa e, dopo aver aperto la porta al suono del campanello, credendo di trovare il marito, si trova di fronte ad uno sconosciuto che improvvisamente la aggredisce sotto la doccia. La stupra? Non è chiaro, il regista non ci mostra nulla se non che c’è del sangue sul pavimento del bagno, sappiamo solo che un intruso (il cliente) ha violato la sfera intima di una famiglia e che gli altri, i vicini di casa, pensano che sia stato uno stupro: chiarissima è invece la reazione di Emad che, recuperando gli oggetti che l’uomo ha lasciato in casa (perché?, perché quella casa era abitata precedentemente da una prostituta e frequentata dai suoi clienti), inizia a preparare la sua vendetta. Insomma, la vendetta più che basarsi sui fatti si basa sull’immagine che gli altri hanno di ciò che è successo. Perché questo? Perché a Fahradi interessa mostrare la turbolenza morale che esiste nella società iraniana, una società in cui convivono conflitti tra tradizione e modernità, tra conservazione ed aperture. Qui il film comincia ad articolarsi e fa vedere, forse, ciò che più preme al regista: mettere in relazione quella storia con la pièce che la coppia sta recitando, la realtà americana in qualche modo metafora delle miserie sociali della società iraniana. E qui si vede il Farhadi sceneggiatore (forse più sceneggiatore che regista): attraverso piccoli episodi quotidiani (ad esempio i momenti di vita scolastica di Emad) si sviluppa la spirale sempre più rigida, ossessiva, quasi fondamentalista, di Emad, sicché ciò che emerge, alla fin fine, è una messa in discussione dell’ideologia del regime iraniano. Ma non basta: Emad resta vittima anche della reazione di Rana, choccata, piangente, che per un periodo non ce la fa ad andare a recitare.
Diventa essenziale allora (il film diventa sempre più un ‘giallo’) un furgoncino che il cliente, molto probabilmente, ha abbandonato, nella fuga, davanti alla nuova casa. Quel furgone ha una targa e Amed, con l’aiuto di un suo allievo, risale al padrone. Dopo alcuni passaggi Amed si trova davanti all’uomo che sta cercando: e chi è quell’uomo? Un povero vecchio ammalato che, dopo le insistenze quasi violente di Amed, riconosce di essere stato tentato ma senza colpo ferire. E allora quel sangue? Probabilmente se l’è procurato Rana cadendo a terra, non v’è stato assolutamente stupro. E Rana, alla vista di quell’uomo, si emoziona fino al punto di chiedere ad Amed di lasciarlo stare, è più bisognoso di lei, fino al punto di minacciare il marito che, se insiste nel suo desiderio di vendetta, lo lascerà. Dunque, un dramma nel dramma, e il film termina con la scena dei due che si truccano perché sono tornati a teatro, per continuare a recitare Morte di un commesso viaggiatore. Il dramma continua…
Il film indubbiamente coinvolge ma il gioco che Fahradi ha costruito, alla fine, lascia perplessi, lascia come un senso di vuoto ‘filmico’, il regista si è troppo innamorato di quella storia fino al punto di farsi ‘intrappolare’.
Ultime notizie da Fahradi.
Dopo che il presidente americano, il signor Donald Trump, ha deciso di chiudere le frontiere per quattro mesi agli emigranti provenienti da sette paesi musulmani, Fahradi ha inviato una lettera al New York Times con la quale informa che, comunque, non parteciperà alla cerimonia di consegna degli Oscar, previsti per il 27 febbraio. Ciò dopo che in un primo momento aveva deciso di parteciparvi. Così ha motivato la sua decisione: “Avrei preso parte alla cerimonia ed espresso le mie opinioni su questo tema alla stampa presente all’evento… perché so che molti esponenti del mondo americano del cinema e dell’Academy of Motion Picture Arts sono contrari al fanatismo e all’estremismo che, oggi più che mai, stanno prendendo piede. Tuttavia adesso pare che all’eventualità di questa mia presenza si accompagnino molti ‘se’ e molti ‘ma’ che ritengo inaccettabili, anche qualora si facessero eccezioni soltanto per il mio caso. Di conseguenza, intendo rendere noto ciò che avrei detto alla stampa se mi fossi recato negli Stati Uniti: gli estremisti, a dispetto della nazionalità, delle idee politiche e delle guerre, considerano e leggono il mondo in modo assai simile, facendo ricorso soltanto alla mentalità ‘noi e loro’, formula che usano per dare un aspetto temibile a quel ‘loro’ e incutere paura nella popolazione dei propri paesi. Questo atteggiamento non si limita solo agli Stati Uniti: nel mio paese gli estremisti sono uguali” (ripreso da La Repubblica,
30/1)
E bravo signor Donald Trump, sei riuscito a portare malessere, a creare scompiglio, e paura, anche nel mondo del cinema americano che, malgrado tutto, continua ad essere un punto di riferimento della cinematografia mondiale.