I consumi nel Ventennio Fascista
Il Ponte rosso N° 36 | Laura Sasso | luglio-agosto 2018 | storia
Quando alle merci venne assegnato un nuovo valore: l’”italianità”
di Laura Sasso
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I fattori che determinano l’attitudine al consumo possono essere suddivisi in tre grandi categorie: consolidamento dell’urbanizzazione, dilatazione delle classi medie e impatto delle nuove tecnologie, tutti facilmente riconoscibili nell’Italia degli anni Venti e Trenta. Ma il carattere peculiare viene dalla politica, dal Fascismo che mette fine ai governi liberali e proclama l’avvento di un’economia corporativa e di propaganda che a viso aperto scende fiera nell’arena dei consumi.
A sentire le campagne del regime si direbbe che in campo economico si sia effettuata una vera rivoluzione, grazie alle innumerevoli “battaglie” combattute per la nazione (per il grano, per la difesa della lira, per la bonifica integrale): ogni misura economica diveniva slogan propagandistico. La politica economica adottata fu invero assai più cauta. A favore delle industrie (aiutate con salvataggi e con la formazione di nuovi istituti, come l’Iri) e di tipo protezionistico, incoraggiò la sostituzione delle importazioni con l’acquisto di prodotti nazionali. Così, quando nel 1936 venne annunciata una nuova battaglia, questa volta per l’autarchia (in risposta alle sanzioni imposte dalla Società delle Nazioni dopo l’invasione dell’Etiopia), non si fece altro che dare una veste politica a una linea protezionistica in atto già da diversi anni. Per sostenere l’industria nazionale venne promossa una campagna di sostegno ai prodotti italiani che assegnò alle merci un valore aggiunto, l’italianità. Si moltiplicano i richiami pubblicitari patriottici: l’Italia offre al mondo il suo “miglior prodotto: Fernet Branca”; si esaltano le virtù dello Sniafiocco “il tessuto dell’indipendenza”; un gomitolo della fibra Italviscosa si poggia sulle ali della Nike di Samotracia: “nella potenza del lavoro italiano sta la certezza della vittoria”. È altresì previsto il richiamo alla romanità: gli eleganti abiti maschili Caesar (“stile, eleganza, distinzione”), l’acqua di colonia Etrusca (“essenza millenaria d’erbe sacre in una limpida anfora”) o quella Impero (“l’italianissima! La migliore!”). “Italiani preferite i prodotti d’Italia!”, si tratti di un panettone Motta o di una radio a valvole Siare: comprare italiano era adempiere a un dovere patriottico, un imperativo morale. L’uso della leva patriottica ebbe l’effetto di trasformare il consumo in un’attività pienamente concorrente allo sviluppo del paese, con la creazione effettiva di uno spazio di consumo nazionale: il fascismo tentò di formare un profilo tipico del consumatore italiano. Le immagini dei cinegiornali Luce, le fotografie sulle riviste, i discorsi pubblici e le merci esotiche (soprattutto banane e caffè), resero inoltre tangibili le lontane terre d’Africa: molti prodotti vengono pubblicizzati ricorrendo allo stereotipo positivo dell’indigeno (in una pubblicità per banane, un giovane nero sorridente porge i frutti della sua terra come “L’offerta delle Colonie alla Madre Patria”). Il consumo di prodotti nazionali non si limitava solo all’Italia e alle sue colonie. Da fine Ottocento, esso aveva seguito le ondate di immigrati italiani in Europa e nelle Americhe. Si creò un’importante domanda di prodotti tipici e i governi favorirono tale interscambio per motivi tanto economici (imprese come Buitoni, Bertolli, Martini&Rossi fondarono le loro fortune proprio sui mercati esteri) quanto politici: era un modo per tenere unite le comunità italiane all’estero, rinforzarne l’identità, mobilitarle a favore del paese in caso di necessità. Durante la campagna d’Etiopia, le comunità di New York e Chicago si mobilitarono per acquistare merci provenienti dall’Italia. Al di là dei discreti risultati quantitativi, venne senz’altro rafforzata l’idea che la propria identità etnica si costruisse anche, se non soprattutto, attraverso un preciso modello di consumi. E non si devono con questi intendere solo i prodotti in sé, poiché il loro significato più autentico risiede nelle pratiche con cui vengono consumati. Per gli italo-americani non si trattava solo di mangiare pasta, pomodori, vino, pane e olio, bensì del tramandarsi le ricette tipiche, del sacro dono del cibo ad amici e parenti: mangiare italiano significava dare concretezza a valori come la famiglia, il gruppo e la convivialità.
La spesa pubblica fu riorientata seguendo finalità innanzitutto politiche: ne sono chiari esempi l’istruzione e la politica assistenziale. Si spende meno per l’educazione durante il regime che non nei precedenti governi liberali, e cambia soprattutto la modalità di gestione, ora in gran parte nelle mani di uno stato che ha esautorato gli enti locali: la scuola viene affiancata da organizzazioni giovanili parascolastiche (Opera nazionale Balilla, Figli della Lupa, Gruppi universitari fascisti, Piccole Italiane, etc). Si offre sì una preparazione diffusa (l’educazione elementare è ormai in buona parte assicurata), ma si propone un’educazione politicizzata che non fa altro che ripetere le divisioni di classe e genere. La preoccupazione per l’integrità della stirpe spinge ad assicurare alcune categorie di lavoratori e ad ampliare la previdenza contro le malattie attraverso un istituto centralizzato, l’Infam; si provvede al riordino dei servizi sanitari negli ospedali e vengono condotte campagne per debellare malattie come la malaria e la tubercolosi, con buoni risultati. La previdenza è un utile strumento di controllo sociale, vengono così istituiti enti centralizzati parastatali per la sua gestione: istituti per il personale di enti locali (Inadel), enti pubblici (Enfdep e Enfpas), per le pensioni (Infps), per gli infortuni dei lavoratori privati (Infail). Tali soluzioni consentono una certa economia gestionale: gli enti infatti sopravvivranno al regime costituendo le basi della struttura assistenziale dell’Italia del dopoguerra. Inoltre, questi grandi istituti garantiscono molti posti di lavoro e permettono l’assunzione di cariche prestigiose, prestandosi facilmente a gestioni clientelari, e anche questo passerà al dopoguerra. Vi sono poi i consumi collettivi legati al tempo libero (educazione, sport, cultura, intrattenimento), ottimi strumenti di consenso politico mirato. Tutti sperimentano nuove forme di consumo, fruite gratuitamente o a prezzo agevolato. Una delle prime preoccupazioni del Fascismo fu quella di fare piazza pulita del retroterra avversario, colpendo tutte le associazioni anche solo lontanamente sospette di simpatie socialiste; queste talvolta vengono sciolte, ma più spesso vengono riassorbite entro le organizzazioni del partito, a cominciare dall’Ond (Opera Nazionale Dopolavoro). Le attività dopolavoristiche sono state le più popolari tra quelle proposte dal regime. Nel 1929, ad esempio, vengono istituiti i Carri di Tespi, teatri mobili per la rappresentazione di spettacoli nelle aree rurali prive di sale teatrali. Le recite erano sempre gratuite e mai di carattere propagandistico, ma grandi successi del teatro italiano e famose opere liriche. Fu un successo: il fatto di non presentare opere di propaganda non ne limitò il valore politico, perché “ovunque parve come un dono del Regime”; d’altra parte, la propaganda più efficace è quella che non si vede. La sola prerogativa richiesta per la rappresentazione delle opere era l’italianità.
È in questo momento che si creano le premesse per un consumo di massa orientato verso la tecnologia e una sua fruizione domestica. Ma il costo delle nuove tecnologie è ancora troppo elevato per operai e piccolo-borghesi e il loro possesso resta un segno distintivo di classe. Servizi come l’acqua corrente, l’elettricità e il gas sono ancora un sogno per la maggioranza della popolazione, un lusso per chi può permetterseli. Sono poi arrivate le automobili. L’industria italiana si era mossa in tempo: negli anni Venti ci sono ben 26 case automobilistiche (le auto di lusso dell’Isotta Fraschini, le auto sportive di Alfieri Maserati, le Alfa Romeo, le Lancia, le Fiat, per citarne alcune). Tuttavia, il vero mezzo di trasporto per tutti, la migliore tecnologia acquistabile, resta la bicicletta. La guerra non farà altro che congelare una situazione più complicata di quanto il regime abbia mai ammesso. Autarchia e protezionismo avevano di fatto danneggiato un’economia ancora in trasformazione come quella italiana, favorendo solo alcuni settori, a scapito di altri, e imponendo ai consumatori prodotti italiani più costosi o surrogati di scarsa qualità. Le condizioni di vita della popolazione peggioreranno drammaticamente, quasi a ribadire l’ineluttabilità di un destino fatto di povertà e deciso sempre dall’alto.