Guadagnino, un giudizio controcorrente
cinema | febbraio 2018 | Fulvio Senardi | Il Ponte rosso N° 31
di Fulvio Senardi
Invogliato da una critica elogiativa fino all’iperbole, subisco al cinema le due ora e passa del Chiamami con il tuo nome di Luca Guadagnino. Durante lo spettacolo e all’uscita scorgo nell’amica che avevo a fianco il mio stesso sguardo di perplessità. Poi, l’inchiesta fra conoscenti blandamente cinefili per cercare di comprendere meglio. Non che mi manchi l’abitudine alla dissidenza, fin da quando papà insisteva a spiegarmi che il miglior politico era Malagodi, misurandosi con dinieghi, da parte mia, prima diplomatici poi sempre più testardi. Oppure quando scrivevo peste e corna di Va’ dove ti porta il cuore, incoraggiato, in questo caso, contro il parere dei più, dal mio mentore dell’università, Giuseppe Petronio. Ma per Guadagnino il plebiscito è così ampio ed assordante, che ho chiesto ospitalità al direttore Chiereghin, nella speranza di un dibattito chiarificatore.
Dunque, a scanso di equivoci, calo subito la carte: ho trovato il film vacuo e pretenzioso. Nonostante la notevole interpretazione del giovanissimo Chalamet, Elio del film, compensata ahimè dal sorriso pre-stampato di Hammer (Oliver), un vero sunny boy alla Baywatch. L’ambientazione è quella tipica dell’Italia-natura, tagliata su misura per facili entusiasmi americani: una villa nel verde (nel cremasco in questo caso, e non in Toscana, come vuole usata consuetudine, si ricordi Io ballo da sola di Bertolucci) ripresa nei particolari di stagni azzurreggianti, fronde virenti, dettagli architettonici di antica eleganza patrizia. Con insistiti fermo immagine, qualche volta scopertamente simbolici (il cannello di un’antica fontana su cui Groddeck saprebbe molto dire). Si pensa a Malick. Con la differenza che in lui le immagini (i particolari naturali) e la musica formano un suggestivo tutt’uno che evoca l’essere e il divenire, la stasi e il mutamento, l’Eterno.
In Guadagnino il trattamento è manieristico e scontato. Inutile raccontare la trama, per quanto se n’è parlato. Il risveglio dei sensi di un adolescente, che si innamora di un giovane, di qualche anno più grande, giunto come ospite nella villa di famiglia. Già, la famiglia; qui un imbarazzante punctum dolens: un Mulino Bianco ad alto esponente culturale, dove bonomia e tolleranza si sposano a raffinata arte del vivere, e vi si parlano con proprietà e naturalezza tutte le lingue d’Europa. Ma solo quando Elio non sieda al pianoforte, uno Steinway and sons naturalmente, per interpretazioni di altissima classe. O non si disquisisca, nel salotto tappezzato di volumi preziosi, di complesse etimologie, come quella di albicocca, che, spiega un sorridente duetto di Hammer e del padrone di casa, transita dal latino al greco, quindi all’arabo, per ritornare alla penisola arricchita dell’articolo ‘al’. Non altrettanto ricchi di pathos i dialoghi tra Elio e Hammer, che ricordano Ionesco (ma senza l’intenzionalità, credo, del teatro dell’assurdo). Certo, spesse volte l’adolescenza si ammanta di silenzi e di rossori, vive del non detto, o trasmette i suoi messaggi negli interstizi di silenzio; eppure, cara adolescenza timida, il narratore, scrittore o regista che sia, dovrebbe saperti far “parlare”. E tutto ciò in una città bellissima e muta, con una Piazza Duomo da day after, svuotata, salvo i due giovani, di presenze umane. Una scena prosciugata, come in certi manifesti di Antonioni sulla solitudine e l’incomunicabilità. Eppure come resistere al richiamo dei sensi? L’apollineo del luogo magico nella campagna estiva, assorta nella sua magia, si apre allora all’estasi dionisiaca. L’inventivo amore con la pesca vale come metafora di un Eros ancora incerto sull’oggetto: ultimo guizzo, prima della scelta, del freudiano “perverso polimorfo”?
Di tanto in tanto qualche contestualizzazione storica (inutile, tanto gli americani non possono capire) e fra di esse una clamorosamente sbagliata: il pentapartito guidato da Craxi spiegato come risultato del “compromesso storico”.
Le lancette scrutate con sguardo implorante danno, dopo due ore, il segno della grazia. Mi alzo ed esco a riveder le stelle.