Gli psicologi

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di Giuseppe O. Longo

 

 

Finché si era deciso e aveva accettato il consiglio di Marco, che gli aveva dato il nome di uno psicologo della vecchia scuola. Antonio aveva preso appuntamento ed era andato nello studio del dottor C., all’ultimo piano di un palazzone dalle parti di San Vito. I primi incontri erano stati deludenti, tanto che Antonio aveva quasi deciso di rinunciare, poi però C. gli aveva mostrato alcune figure: una serie di macchie abbastanza semplici, che evocavano figure familiari in cui Antonio vedeva cose che non voleva confessare neppure a sé stesso. Ne ricavava un turbamento sotterraneo che tentava di reprimere, e per reprimerlo cercava di soffrire come aveva sofferto per mesi dopo l’abbandono, ma ora la sofferenza sembrava attutita da quelle macchie slabbrate e confuse, nere di un nero violento, che figuravano pipistrelli e diavoli alati e altre immagini simmetriche, di una simmetria conturbante come di certi organi dispari del corpo umano che Antonio conosceva bene. Il test di Rorschach l’aveva convinto a continuare le sedute con C., ma pian piano quella ridda di macchie aveva cominciato a inquietarlo, e la sua vecchia sofferenza aveva ceduto a un nuovo tormento: quelle maschere, quelle farfalle, quelle ranocchie, quei teschi, quegli esseri alieni gli suggerivano oscenità inconcepibili, di altri mondi… Poi C. gli aveva mostrato figure colorate, rossi accesi, turchini slavati, verdi esangui accanto al solito nero d’inferno: nonostante il loro aspetto luminoso, quelle tinte gli procuravano un turbamento ancora più profondo. Finché lo psicologo gli aveva messo sotto gli occhi un’ultima immagine: sembrava un coniglio, che nella sua mansuetudine suggeriva una sapienza millenaria, e lo guardava mite, con occhi comprensivi, come a dirgli che conosceva il suo rovello, e che lo comprendeva e compativa. Allora Antonio provò un empito irrefrenabile di pietà per sé stesso e si mise a piangere a dirotto, con singhiozzi forti e ritmati che non finivano mai. C. taceva, lo guardava appena da dietro le sue lenti da presbite e attendeva paziente, della stessa pazienza di cui era intriso il coniglio millenario che taceva immobile e lo guardava con gli occhi umidi e comprensivi degli animali che sanno, che hanno sofferto nella loro carne le offese e gli insulti e i colpi degli umani. A poco a poco Antonio si calmò, nella stanza si adunavano le ombre della sera, C. sembrava dormisse come un vecchio barbagianni.

Da quel giorno Antonio riprese a sognare, dopo mesi di notti convulse nei dormiveglia che non gli davano requie. Sognava di città, di strade e palazzi che non riconosceva, pareti colorite e cupi cortili di finestre inferriate. Finché una notte sognò di essere nella scuola dove insegnava fisica, ma non riconosceva le aule e i corridoi, c’era una folla di studenti e di colleghi che andava e veniva e che lo ignorava, finché si era trovato accanto a un tavolo, proprio davanti all’ingresso dell’aula magna, e al tavolo erano seduti due psicologi in camice bianco, con la barba pure bianca e gli occhiali polverosi, e pareva che aspettassero proprio lui e Antonio seppe che avevano emesso la sentenza e infatti sembravano molto imbarazzati e nessuno dei due si decideva a parlare, si facevano l’un l’altro piccoli cenni e inchini come a invitarsi a vicenda e Antonio capì che non c’era più niente da fare, che tutto era consumato. Finalmente uno dei due psicologi parlò, e intanto scoteva il capo e gli occhiali scintillavano come se fossero attraversati da una corrente elettrica che provocava scintille bluastre e scoppiettanti, e diceva a saperlo prima si sarebbe potuto fare qualcosa, ma ormai… Allora Antonio si mosse, dapprima lento, poi sempre più rapido scese la grande scalinata della scuola, si trovò per strada, vide la sua macchina, ci salì, mise in moto, s’infilò a marcia indietro per un sentiero che scendeva ripidissimo, tentò di frenare, ma la macchina scendeva a tutta velocità e lui fece in tempo a pensare addio Antonio, e si svegliò.