Gillo Dorfles, il Narodni Dom e oltre
ARCHITETTURA | dicembre 2016 gennaio 2017 | Il Ponte rosso N° 20 | mAURIZIO lORBER
L’architettura che delinea il profilo della città è un precipitato di vite ed eventi del passato
di Maurizio Lorber
La voce di Gillo Dorfles non suscita autorevolezza soltanto per la sua reputazione di illustre studioso e accademico. Egli, quando ci parla, non sembra farlo da storico ma da testimone di un mondo di ieri; un mondo solo apparentemente scomparso poiché coabita materialmente nel nostro vissuto quotidiano. Non è necessario infatti frequentare i musei o le biblioteche per rendersi conto che l’architettura che delinea il profilo della città è un precipitato di vite ed eventi del passato. Dorfles, nel 2009, in un articolo pubblicato nella rivista Ottagono, scriveva: «Tutta l’impostazione urbanistica e portuaria [di Trieste] era quella del più grande porto dell’Impero Asburgico; questa posizione preminente è caduta con l’annessione di Trieste e della Venezia Giulia all’Italia, che ha sempre trascurato l’importanza di questa città».
Nell’esprimere il suo rammarico per una sindrome da “incomprensione reciproca” – sentimento diffuso nel comune sentire di molti cittadini della città altoadriatica – egli pone in evidenza che la città è divenuta, in particolar modo nel dopoguerra, un porto fra i tanti a disposizione della penisola italica. Con una provincia ridotta a un raggio di 10 km dal centro e, di conseguenza, con possibilità di sviluppo economico e commerciale che stentano a decollare. Questa senso di marginalizzazione, legato a fraintendimenti della sua peculiare dinamica storica, si ravvisa anche nel passato politico recente. Infatti, con malcelato fastidio, la cittadinanza reagì, negli anni Settanta, nei confronti dei partiti istituzionali con un partito autonomo. Non a caso a Trieste, nel 1978, nacque la prima lista civica in Italia – Lista per Trieste – che governò il Comune per molti anni.
Ma come porre in relazione architettura e storia e quanto della storia di una città può essere compreso attraverso gli edifici. Dorfles, per primo, suggerì che «l’architettura deve essere considerata come un insieme organico e fino a un certo punto istituzionalizzato di segni» (1962), e pochi anni dopo Umberto Eco (1968) pose in evidenza che tutti i fenomeni di cultura potevano essere esaminati come se fossero veicoli di significato basandosi sull’ipotesi che in realtà tutti i fenomeni di cultura siano sistemi di segni. Nel concreto è possibile citare un esempio architettonico di connotazioni che si aggiungono al valore formale dell’edificio e che riassume le tormentate vicende della città. Lo stesso Dorfles, non a caso, nel recente articolo pubblicato in Ottagono cita quale esempio di prodigiosa soluzione funzionale l’ex Casa del Popolo della comunità slovena, poi Hotel Balkan (ora sede della Scuola interpreti) purtroppo irrimediabilmente danneggiato nel 1920 da un incendio doloso, che causò pure la distruzione delle splendide vetrate del viennese Koloman Moser.
La distribuzione degli interni rispondeva ad uno sfruttamento razionale dello spazio che permise di attuare nel palazzo, costruito tra il 1902 e il 1904 dalla comunità slovena; un vero complesso multifunzionale che aveva la necessità di ottimizzare la superficie in considerazione dell’alto costo dell’area edificabile. L’esemplare organicità interna riuscì a soddisfare le richieste della comunità slovena che desiderava destinare l’edificio a molteplici funzioni, cosicché in uno spazio relativamente esiguo furono inseriti una banca, una struttura alberghiera – l’Hotel Balkan – numerosi appartamenti, un caffè, una sala di lettura, una palestra, un teatro e una autonoma centrale di illuminazione. Il portale di ingresso costituì un polo di attrazione visiva, a cui corrispondeva il basamento in bugnato del piano terra, mezzanino e primo piano impreziosito dalle vetrate del Moser. Forse l’aspetto più intrigante, ancor oggi visibile, è la tessitura della facciata che rielabora i motivi geometrici di palazzo Gopcevich e del più illustre palazzo Ducale di Venezia.
Il Narodni Dom è una sorta di sintesi delle stile Fabiani. In stretta relazione con quanto teorizzato e realizzato dalla Wagnerschule si caratterizza per un classicismo essenzializzato nel quale la struttura geometrico-compositiva sostituiva i tradizionali ordini classici.
Ma, al di là degli aspetti formali, se poniamo in relazione il Narodni Dom con la famigerata affermazione di Piero Sticotti – fondatore dei Civici Musei di Storia e Arte di Trieste – affiorano ulteriori particolarità storiche. Scrive lo Sticotti nel 1921: «Ebbene, ricordate il leone alato nel palazzo Vianello che sovrastava la facciata d’angolo sulla piazza Oberdan? Non pareva uno scherno e un’allegra minaccia al glabro edificio balcanico lì presso? E come una sfida fu anche interpretato e odiato, e durante la guerra si avventò contro quel fiero segnacolo veneto una vile orda di cacciatori di leoni e lo distrusse; ma fu breve la gioia, che la profanazione fu vendicata dal più bel rogo che mai sia stato visto a Trieste».
A questo crudele commento che elogia la violenza squadrista possiamo inoltre accostare una vignetta della rivista satirica Marameo, nella quale compare anche l’aggressivo leone alato evocato nel passo citato. Possiamo così ben comprendere, tramite un semplice esempio di incrocio di fonti diverse (architettura, testi, illustrazioni) che l’architettura può assumere “significati secondi” che prescindono dalla funzione espletata e travalicano l’analisi formale. Un esempio peculiare della storia di Trieste nel quale agli stili architettonici si associarono connotazioni ideologiche e i due palazzi, fronteggiandosi, assunsero un ruolo di protagonisti in un evento che segnò un crudele punto di svolta a favore dell’incomprensione reciproca.
Formalmente la struttura e la decorazione del palazzo Vianello (1903) è proprio all’opposto delle soluzioni ideate da Fabiani. La proposta di Ruggero Berlam è antitetica alla semplificazione del linguaggio classico dell’architettura; nella sua esaltazione plateale di motivi rinascimentali e barocchi finì per rappresentare il vessillo della tradizione italiana da contrapporre alla cultura slovena.
Didascalie immagini:
Progetto della facciata di Max Fabiani per il Narodni Dom (1902)