Gabbie concentriche
aprile 2020 | Editoriale | IPonte rosso N° 55
Finirà. Verranno, prima o poi, i giorni in cui potremo uscire quando ne avremo voglia, levarci la mascherina, incontrarci con gli amici, qualche settimana più tardi persino abbracciarci di nuovo, baciarci. Per quelli che saranno riusciti a tenersi un posto di lavoro torneranno i ritmi di prima della pandemia. In quel futuro, che temiamo non proprio prossimo, potrà capitare di accorgersi che l’uscita dal tunnel ci condurrà in un tunnel più grande, e dannatamente più lungo, come in un gioco di gabbie concentriche.
Per tutti, collettivamente, si ripresenteranno decuplicati i problemi con i quali avremmo dovuto fare i conti ben prima che comparisse, sulla scena mondiale, lo spettro del contagio che ha paralizzato il mondo per mesi interi. In Italia, sotto molti profili, i problemi si presenteranno ancora più complicati, per alcune tragiche peculiarità del nostro Paese, a iniziare da uno spaventoso debito pubblico, cui fa seguito una classe dirigente – non solo politica – inadeguata, una ramificata e potente criminalità organizzata, la larga diffusione del sommerso, la palla al piede di una burocrazia asfissiante e, al contempo, largamente inefficiente. E poi, naturalmente, il consueto contorno di corollari, dall’evasione fiscale alla lacunosa tutela del paesaggio, a cento altri rivoli di inefficienza e di approssimazione, quando non di malaffare e corruzione.
Una volta terminata o ridimensionata l’emergenza sanitaria, ci si farà dinanzi con tutta la sua invadenza l’emergenza economica e, a ruota, quella sociale: è stata formulata autorevolmente l’ipotesi che in conseguenza della pandemia, l’Italia potrà avere circa dieci milioni di abitanti sospinti oltre la soglia della povertà, già in precedenza di inquietanti dimensioni.
Far fronte a questa emergenza richiederà costi enormi, che saranno richiesti a intere generazioni di italiani. Resta da vedere chi, in quale misura e con quale ricaduta sulle proprie condizioni di vita sarà chiamato a pagarli. I presupposti che ci siamo lasciati alle spalle, prima della crisi ingenerata dal contagio, non lasciano sperare gran che, in termini di equità.
Nonostante l’allargarsi progressivo della forbice relativa alla distribuzione della ricchezza – non solo a livello italiano – non appaiono all’orizzonte presupposti che indichino un’inversione di quella perversa situazione. Nel 2018, ventisei (26!) individui possedevano la ricchezza di 3,8 miliardi di persone, la metà più povera della popolazione del pianeta. Depurando i dati ed escludendo quindi i paesi in via di sviluppo (perennemente “in via di sviluppo”, come recita un cinico eufemismo), limitandosi alla sola situazione nazionale, nello stesso anno il 20% più ricco degli italiani è stato detentore del 72% della ricchezza italiana, mentre al 60% più povero ne rimane appena il 12,4% (fonte: Il Sole 24 ore del 21 gennaio 2019).
Al dato riferito meramente al reddito, per completare il quadro con un minimo di verosimiglianza, è necessario tenere presente degli altri indicatori, quali l’incidenza della disoccupazione, la precarietà dei rapporti di lavoro, la crescente impossibilità di accesso al cosiddetto ascensore sociale da parte dei ragazzi appartenenti a quel 60% della popolazione di cui si è detto, la prevedibile tentazione di ridurre ulteriormente la gamma e la qualità dei servizi sociali. Tutti fattori che importano davvero poco, almeno a coloro che possono trasferire all’estero la propria sede legale o quella fiscale. E pensare che con questi chiari di luna ci sono forze politiche di grande, forse maggioritario, seguito popolare che propongono con la cosiddetta “flat tax” uno smantellamento del principio di progressività delle imposte dirette.
Si sente spesso ripetere che quando saremo usciti da questa emergenza epidemica «nulla sarà come prima». Sotto molti profili sembra essere un epilogo da bramarsi devotamente.