Far dell’arte un fascio
arte e regime | Il Ponte rosso N° 43 | marzo 2019 | Roberto Curci
E chissà che prima o poi non rifaccia capolino la trovata di un nuovo “Premio Cremona”…
di Roberto Curci
Per uno strano caso si sono svolte quasi in contemporanea (e da poco si sono quasi contemporaneamente concluse) la mostra “Il regime dell’arte” (Cremona, Museo Ala-Ponzone, a cura di Vittorio Sgarbi e Rodolfo Bona) e la mostra “Metlicovitz. L’arte del desiderio” (Trieste, Museo Revoltella e Museo Teatrale, a cura di chi scrive queste note). Ma – direte voi – che c’azzecca una rassegna dedicata ai fasti del fascismo a cavallo tra anni Trenta e Quaranta con una monografica su un illustre cartellonista di origini triestine attivo soprattutto tra la fine dell’Ottocento e i primi due decenni del Novecento?
Eppure un legame c’è, singolare e curioso. E sussiste anche a mostre ormai chiuse. Nei tre anni ai quali la mostra cremonese ha fatto riferimento – dal 1939 al ’41, anni nei quali, per volere del potente federale locale Roberto Farinacci, si tenne l’encomiastico Premio Cremona di pittura – Leopoldo Metlicovitz, che da tempo aveva dismesso l’arte del manifesto e, nel suo romitorio brianzolo di Ponte Lambro, si dedicava per piacer suo all’arte della tavolozza e del cavalletto senza mai esporre i propri ritratti e paesaggi, imprevedibilmente aderì all’invito-diktat di Farinacci e presentò proprie opere ad ognuna delle tre edizioni del Premio, prima che esso finisse cancellato dalla nefasta evoluzione della guerra.
Giornata della fede, 18 dicembre XIV, Nostro pane quotidiano, Stirpe: questi i titoli dei quadri presentati al concorso da Metlicovitz, in ossequio ai temi di anno in anno indicati agli artisti da Farinacci, a glorificazione del regime nei suoi vari ambiti. Così, il pittore ed ex cartellonista triestino propose nel ’39 una scena della donazione delle fedi d’oro “alla Patria”, la simbolica contromisura imposta dal fascismo agli italiani (almeno a quelli coniugati) alle sanzioni comminate dalla Società delle Nazioni per il feroce attacco all’Etiopia (1935-’36). L’anno dopo fu la fatica dei campi e del raccolto a essere raffigurata da Metlicovitz, nello spirito autarchico della “battaglia del grano” proclamata già nel 1925 dal “Duce”. Nel ’41, infine, quasi ad auspicare una già improbabile “ereditarietà” del fascismo e del suo credo, l’artista riunì in un affollato contesto di ambientazione romana un grappolo di piccoli “balilla” e di “camicie nere”, a indicare – si rilegga il titolo – la continuità della “stirpe” cresciuta nel culto del fascismo e del suo capo.
Che a questi ideali Metlicovitz credesse, pare indubitabile, benché prima di allora soltanto uno degli estremi manifesti degli anni Trenta avesse potuto far presumere una sua adesione ai dettami del regime (Acquistate prodotti italiani era il motto di quel suo lavoro, del 1934). Che ci credesse fermamente è comprovato dalla sua stessa presenza – non estemporanea od occasionale, dunque – a tutt’e tre le edizioni del Premio. Rimane il fatto che nella mostra al Museo Ala-Ponzone nessuno dei suoi lavori era presente, tanto che la fisionomia stessa di quelle opere è deducibile – in bianco e nero – soltanto dai cataloghi d’epoca che le riproducono. Il primo dei tre quadri, rintracciato dai curatori, non è stato prestato dall’attuale proprietario; il secondo – esistente – non è stato esattamente localizzato; del terzo si sono perdute le tracce in Germania, dove Stirpe fu inviato per essere esposto nell’amica Germania, precisamente in una mostra ad Hannover (e pare sia stato poi acquistato dall’allora borgomastro).
La Giornata della fede è comunque riprodotta – sezione “opere non in mostra” – nel catalogo della mostra da poco conclusasi (Contemplazioni Editore): catalogo che dà conto esaurientemente di una rassegna senza dubbio coraggiosa (dote che di certo non difetta a un bastian contrario quale Sgarbi…), ma altresì storicamente interessante e talora di notevole livello artistico. Se, fra la trentina di opere selezionate (tutte di ampia metratura), Sgarbi – come pare – ha prediletto particolarmente le gremite Colonie fluviali di Giuseppe Moroni, le opere qualitativamente più significative – di un realismo quasi ovattato e suggestivamente atemporale – erano probabilmente quelle dedicate da Baldassarre Longoni al mondo agricolo: Aratura, Mietitura, Bonifica.
Arte di propaganda? Certamente non nella pittura di Longoni. Arte di propaganda? Sì, senza dubbio, nella mezza dozzina di mediocri opere rappresentanti piccole folle assorte nell’ascolto dei discorsi del “Duce”, grazie alla diffusione di quelle Radio Balilla (dodici esemplari accatastati in mostra) prodotte intensivamente da molte fabbriche italiane e distribuite lungo lo Stivale negli anni ’37 e ’38. Mica gratis, però: al bel prezzo, anzi, di 430 lire. Ma per una fervida “ascoltazione” (così il titolo di un quadro) della Voce Forte del regime, questo e altro. Prima del Diluvio imminente.
(E chissà che prima o poi non rifaccia capolino la trovata di un nuovo “Premio Cremona”. L’arte, daccapo, al servizio dell’Idea, o piuttosto del Potere vigente. Perché no? Lo si è già visto non solo in Italia, ma quasi dappertutto, in questo nostro brutto mondo affamato di Voci e di Uomini forti. Ci potrebbe pensare qualche gerarchetto locale, alla Farinacci. Sarebbe un bel colpo, e il Capo – chiunque egli fosse – ne sarebbe felice).